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 2013  maggio 31 Venerdì calendario

«IL MIO MUSEO È TUTTO FINTO MA LA GENTE NON CI CREDE»

La verità è in 4.231 sigarette macchiate di rossetto. Così vere eppure così “tarocche”... Una fila interminabile di mozziconi, attaccati con lo spillo, uno a uno, come un entomologo fa con le sue preziose farfalle, ognuno con la sua didascalia che ricorda lo stato d’animo con cui vennero fumati, fra il 1976 e il 1984, da Füsun, la protagonista di questa storia. Talvolta consumate fino al filtro, altre volte spente con rabbia, sempre segnate dal colore acceso che disegnava le labbra di una bellissima ragazza. Sì, sigarette: raccolte da Kemal, l’uomo che l’amava, che, per ricordarla, le ha appese a un pannello e conservate in un museo. Riuscite a pensare prova migliore del fatto che quella donna sia realmente esistita? E invece...
«La storia è pura invenzione, così come il museo. E neppure le sigarette sono del tutto autentiche. Se lo fossero, il tabacco si deteriorerebbe in sei mesi», scuote il capo Orhan Pamuk. «Con una sostanza chimica abbiamo riempito cartine e tabacco della marca in vendita in Turchia trent’anni fa; una volta “fumate” elettronicamente e spente, abbiamo dato loro le varie forme che potessero rendere la psicologia di una ventenne immersa nell’infelicità, e le abbiamo appese al piano terra del museo». Ma non scriva di questa ulteriore dissimulazione, aggiunge lo scrittore, Nobel per la Letteratura nel 2006: senza alcuna convinzione, però. Tanto più che nulla può scalfire una sua certezza: «Quella del potere della letteratura. Chi scrive libri lo dichiara: “Qui non si sta dicendo la verità”. E io non sono Kemal. Ma chi legge pensa sempre: “Non è vero, tu hai provato davvero ciò di cui parli”. L’esperienza del museo, in un certo senso metafisica, e la concretezza di ciò che è in mostra, provocano un’ulteriore, profonda confusione nel lettore».
Il demiurgo Orhan Pamuk gongola. Su quel muro pieno di cicche, la finzione letteraria s’incarna e l’eroina del libro prende respiro e anima, “tiro” dopo “tiro”; assieme a lei, si materializzano (a maggior gloria dello stesso autore) gli altri protagonisti de Il museo dell’innocenza, il volume che lo scrittore turco ha trasformato in un autentico museo, a 50 metri dal famoso bagno turco di Cukurcuma (comprando, nel cuore di Istanbul, l’edificio all’indirizzo in cui il volume indicava la casa di Füsun...): il giovane Kemal, la sua fidanzata Sibel, zia Nesibe, Faim, il Vicino Stronzo Baffuto e lo Zio Turpe...
Un anno, un mese e un giorno sono passati dall’apertura, già 40mila sono stati i visitatori. «La cosa incredibile è che, per quanto io possa insistere a spiegare che ogni cosa (ok, sigarette a parte, ndr) è frutto dell’immaginazione, chi guarda VUOLE credere che sia tutto vero!», ribadisce l’artefice della dimora-museo. «Le foto dell’amata, i suoi abitini a fiori, le tazzine da tè che usava, rendono quasi inaccettabile l’irrealtà sua e dei personaggi che vivono con lei».

Tra realtà e finzione. Che trappola perfetta! Come resistere all’incantamento di galleggiare fra la realtà e la fantasia? D’altra parte, poi, perché farlo? Orhan Pamuk, che Il museo dell’innocenza l’ha pubblicato nel 2008, l’ha pensata proprio bene: «Le cose, però, non sono andate in quest’ordine cronologico, come si può credere: io ho concepito libro e museo insieme. È un progetto unico, nato tra il ’97 e il ’98. A partire da un “cuore” semplice: una storia d’amore fra un ragazzo, figlio di una famiglia dell’alta società di Istanbul, e una ragazza di un quartiere povero della città, che fa la commessa in un negozio di moda. Solo che non si tratta di una love story romantica. Il mio è, invece, il tentativo serio di analizzare cosa accade davvero quando ci innamoriamo profondamente».
Perché l’amore non è leggerezza. Il protagonista vive con Füsun 44 giorni di passione e sentimento, dentro i quali c’è anche “l’istante più felice della sua esistenza”. Ma Kemal è già fidanzato con Sibel, e viene così lasciato dal suo vero amore: per un anno si macererà senza vederla, per altri otto l’aspetterà (lui è rimasto solo, lei nel frattempo s’è sposata con un giovane e inconsistente sceneggiatore), fino al toccante epilogo. «Kemal ama veramente Füsun, al punto da cominciare a collezionare oggetti per consolarsi del fatto di non poter avere la ragazza del suo desiderio, e per riportare a sé le sensazioni dei momenti consumati insieme – belli e cattivi –, calmando così i tormenti del cuore».
Alla fine della storia, e di questa ossessione, Kemal avrà raccolto, per più di 15 anni, materiali d’ogni genere, che popolano ogni angolo del libro. E che dovevano diventare un museo “alla memoria” della donna amata – nella finzione narrativa lo stesso protagonista ne dà l’incarico proprio allo scrittore Pamuk, “amico di famiglia” –, dedicato alla bellezza e all’innocenza dello spirito di Füsun. «Scrivevo e raccoglievo oggetti. Volevo raccontare una storia d’amore che fosse anche intrisa della vita di Istanbul di quegli anni. Quindi, tutto ciò che mi colpiva, lo portavo a casa. Raccoglievo e scrivevo. Giravo soprattutto per mercatini delle pulci», spiega il Pamuk in carne e ossa.
Vecchie macchine per cucire Singer, bottiglie di cristallo, scatole di cerini, locandine di film, figurine di calciatori e di attrici in bikini, uccelli impagliati, mutandine bianche, cani di porcellana, fermagli per capelli. Fotografie. Decine di fotografie, in bianco e nero, spesso di sconosciuti, come quelle di una bella bionda con in mano la bottiglia della prima gassosa turca (che nel libro ha un nome preciso. Davvero tutta fantasia...?). «Capitava che prendessi oggetti dalla casa della mia famiglia o da quelle degli amici o anche di semplici conoscenti». Pamuk pilotava la sua ricerca in funzione della trama: una scarpa gialla con il tacco 5 (che molto racconta del processo di occidentalizzazione della Turchia di allora), le immagini di donne che avevano subito violenza pubblicate dai quotidiani dell’epoca con la pecetta nera sugli occhi; l’orecchino-simbolo che “apre” il libro e il museo. «Ho cercato a lungo quello “giusto”, prima di trovarlo su un banchetto. Qualche volta, però, erano gli oggetti stessi a dirmi come la storia dovesse procedere: a un certo punto, volevo spiegare la psicologia degli abitanti di Istanbul dopo il colpo di Stato del 1980, ma non sapevo come inserirla nel racconto. Poi, un giorno, girando in un bazar, ho trovato una grattugia, e ho capito che era da lì (da un posto di blocco, e conseguente sequestro dell’utensile da parte dei soldati, ndr) che dovevo ripartire».

Orologi e biglietti del cinema. Le 83 vetrine del museo sono quasi installazioni d’arte contemporanea: ciascuna corrisponde a un capitolo del libro. Al numero 74 c’è, in particolare, un vecchio orologio da tasca: «Nel libro appartiene al padre di Füsun: ha quadranti sui due lati, uno con i numeri romani, l’altro con le cifre arabe che ottomani e turchi usavano fino agli Anni 20. Un amico artista l’ha soprannominato East-West Watch, perché unisce Oriente e Occidente. Gustave Flaubert si identificava con la sua eroina e diceva “Madame Bovary c’est moi”; io dico: “L’orologio Est-Ovest c’est moi”, sono io».
Anche se l’oggetto che meglio interpreta la filosofia del libro e del museo – secondo il loro creatore – è un altro: il biglietto del cinema. «È capitato a tutti di andare a vedere un film e di lasciare il tagliando di carta nella tasca di un cappotto che resta dimenticato in un armadio. Per vent’anni non ricordiamo neppure di averla vista, quella pellicola. Finché un bel giorno il biglietto rispunta fuori. E tanto basta per farci rammentare le singole scene, le circostanze per cui eravamo andati, quella domenica pomeriggio, e con chi, e perché...». E le risate che avevamo fatto con la ragazza che aveva accettato di uscire con noi, e le aspettative di un bacio notturno...
Già. Ma il Museo dell’Innocenza arriva da lontano anche per un’altra ragione. «Negli Anni 90, quando i miei libri iniziarono a essere pubblicati in Europa, cominciai a essere invitato a conferenze e tour promozionali», spiega il Nobel 2006. «Allora cominciai a girare, ogni volta che avevo un’ora libera, per musei. E non parlo del Louvre o del British Museum, ma di quelli piccoli, dove si perde il senso del tempo». Il museo del pittore Gustave Moreau a Parigi, la dimora del critico Mario Praz a Roma, il Poldi Pezzoli a Milano. «Anche se il mio preferito in assoluto, quello che mi ha più influenzato, è il Bagatti Valsecchi, a Milano», scandisce, alzando il tono sulle doppie. «Musei per lo più realizzati da persone che volevano trasformare la propria casa, in modo da lasciare ciò che avevano raccolto alla posterità. È qui che ho percepito l’importanza dell’individuo nella cultura europea. E questo mio libro è ispirato proprio all’idea d’individuo».
Un “city museum” era anche l’idea di Pamuk, fin dall’inizio. «Volevo esporre oggetti della vita di ogni giorno della gente che ha vissuto nella mia Istanbul fra gli Anni 50 e il 2000. Così come il romanzo, a sua volta, è una specie di catalogo di ogni aspetto dell’amore, di tutto ciò che ci capita quando ci innamoriamo: rabbia, negoziazioni, sensi di colpa, accuse reciproche. Ognuno di questi eventi è descritto in modo analitico, e corrisponde a un oggetto. Le cose, lo sappiamo bene, hanno il potere di riportare a noi la felicità o l’infelicità. L’insieme di questi oggetti, raccolti in modo che abbiano un senso, rappresenta la storia – il “museo” – della nostra vita».

Collezione di ricordi. Tempo Perduto, e poi Ritrovato: chissà, se Marcel Proust avesse avuto modo di iniettare conservanti chimici nelle madeleine... «La verità è che tutti collezioniamo ricordi: quando siamo innamorati, certo, ma anche quando soffriamo, o quando siamo gelosi. Troviamo consolazione attaccandoci agli oggetti: e questi raccontano una storia, se si ha pazienza di ascoltarla. E di aspettare che i ricordi affiorino. I miei oggetti di culto? Ho conservato i biglietti degli stessi film che ha visto Kemal, con cui ho condiviso, nella vita vera, gli stessi amici, la stessa cultura, gli stessi quartieri: molti pezzi miei li ho messi in mano a lui, nel libro e nel museo».
Realtà, immaginazione. Finzione, verità. L’equilibrismo continua. Pamuk finge ancora di stupirsi del fatto che i lettori pensino che sia tutto vero, ma è lui stesso a giocare con la prestidigitazione. Un mazzo di carte non poteva mancare; la donna di picche e il fante di cuori vivono una accanto all’altro, in questa “versione in 3D” del libro che è il museo. «È vero, Kemal e io abbiamo la stessa origine nella borghesia di Istanbul, abbiamo vissuto perfino quell’innamoramento ai limiti del ridicolo che l’ha messo ai margini del suo ambiente...». Quindi... Kemal è Orhan, Orhan è Kemal? È il momento dell’outing... «Anche lei? No! Kemal ha anche tutti gli aspetti negativi di un uomo della buona borghesia del suo tempo: è centrato su se stesso, è oltremodo egoista, non rispetta troppo le donne. Spreca la sua vita per amore, ma non è un romantico. Si comporta come se pensasse che, comunque, riuscirà a riavere la sua ragazza e la sposerà. All’inizio tratta male Füsun. Ha un comportamento maschile antico, tipico dell’islam “medioevale”. E del resto, il libro parla sì d’amore, ma all’interno di una società repressa, in cui uomini e donne non si relazionano facilmente, non riescono a parlare e al massimo si capiscono più a gesti: il sollevarsi di un sopracciglio, l’offerta di un bicchiere di liquore. Kemal usa questo linguaggio del silenzio, in cui l’espressione dell’amore non esiste, così come il sesso al di fuori del matrimonio è “impossibile” – l’innocenza del titolo si riferisce anche alla verginità –. Ma alla fine (che non raccontiamo..., ndr) si riscatta. E riesce a commuovere».
Il progetto non è concluso, comunque. La collezione (che è anche diventata poi un libro-catalogo) continua. «Una dozzina di capitoli non sono ancora stati illustrati. Inoltre sto aggiungendo al museo i miei quadri: in fondo, io sono un pittore mancato. La mia famiglia pensava che avrei fatto quello, di lavoro, finché a 22 anni sono diventato scrittore. Ma da quando ho superato i 50, ho ricominciato a usare tele e pennelli». Come Füsun, con i suoi dipinti d’uccelli, esposti nella casa... «Molti degli acquarelli, dei quadri a olio e dei disegni, nel museo, sono miei. Anche se firmati con nomi fasulli», taglia corto Pamuk. «A Istanbul sono anche in trattativa con diversi collezionisti, di bottiglie di soda e tessere telefoniche degli Anni 90, per far esporre le loro raccolte. E ad alcuni artisti contemporanei vorrei chiedere di visualizzare alcuni capitoli nuovi».
Una storia in divenire, come la vita: c’era da aspettarselo. «No, il libro originale resterà immutato. Ma potrei pubblicare alcuni racconti collegati, degli episodi a parte, magari appendici su come potrebbe continuare...». Nulla è immutabile, insomma. «Sarei felice se i visitatori del museo – tra 100 anni – dicessero: quello strano tipo che ha scritto un romanzo e ha raccolto questi vecchi oggetti ci ha fatto capire com’era la vita di ogni giorno al tempo di Kemal e Füsun». Sì, perché magari loro non erano veri, e la loro storia d’amore non l’hanno davvero vissuta. Ma il tempo e lo spazio in cui erano immersi, quello sì che era reale. Del resto, chissà, forse, anche loro... E se perfino il rossetto fosse l’autentico rossetto di una vera Füsun?