Antonio Carlucci, l’Espresso 31/5/2013, 31 maggio 2013
QUELL’OLEODOTTO NON S’HA DA FARE
[Da New York
Oggi portare il petrolio con i suoi treni è un affare per Warren Buffett. Domani tutto potrebbe finire. Ma gli ambientalisti...]
Un presidente, un miliardario, una ferrovia e un oleodotto. A seconda della decisione che il presidente prenderà sull’oleodotto, il miliardario potrà diventare ancora più miliardario perché i suoi treni produrranno più profitti. Ecco la storia che nei prossimi mesi rischia di infuocare due dibattiti in una volta: quello sulle politiche di Obama per l’ambiente e quello dei rapporti del presidente con i suoi finanziatori. La miccia sarà il sì o il no alla costruzione del Keystone XL Pipeline, un tubo lungo 2.700 chilometri che dal confine con il Canada dovrebbe trasportare petrolio fino alle raffinerie di Port Arthur, in Texas.
L’oleodotto parte molto a nord, in Canada, per l’esattezza nello Stato di Alberta, dove quasi all’inizio del circolo polare artico ci sono le sabbie bituminose. È una miniera a cielo aperto dalla quale si ricava petrolio trattando un terreno sabbioso imbevuto di bitume. Questo petrolio ha come destinazione naturale le raffinerie degli Stati Uniti, che acquistano il 99 per cento di tutta la produzione canadese destinata all’esportazione. La TransCanada, una società che ha già costruito un lungo tubo che da Haridsty, in Canada, arriva fino a Steele City, in Nebraska, e poi si allunga a est raggiungendo Patooka, in Ilinois, ha progettato una seconda pipeline che dovrebbe arrivare dal Canada sino alle coste texane bagnate dal Golfo del Messico con un rotta molto più diretta attraverso gli stati del Montana, del South Dakota e del Nebraska.
Se in Canada non ci sono stati molti problemi sul tracciato dell’oleodotto, il progetto in terra americana ha scatenato un inferno di proteste ambientaliste guidate dagli attivisti del Sierra Club. Michael Brune, il direttore esecutivo dell’organizzazione, è riuscito a portare in una gelida giornata dello scorso febbraio decine di migliaia di persone a manifestare a Washington, davanti alla Casa Bianca, con lo scopo di convincere l’amministrazione Obama a bocciare anche la seconda ipotesi di tracciato in terra statunitense, in particolare il passaggio del tubo in Nebraska. Secondo il progetto, l’oleodotto avrebbe dovuto attraversare l’area delle Sand Hills che copre la regione acquifera di Ogallala, la fonte di acqua potabile e per irrigazione di decine di milioni di persone. La sola idea di una perdita di petrolio in questa zona ha fatto sì che la Casa Bianca decidesse per il blocco dei lavori, motivato dalle norme che richiedono il permesso dei Dipartimento di Stato quando infrastrutture di questo tipo arrivano da una Stato straniero, e una nuova progettazione con obbligatorio studio di impatto ambientale.
Oggi, Keystone è completo in terra canadese e attende i permessi del governo federale per il tratto che va dal confine sino a Steele, in Oklahoma. Invece il tratto tra Steele e Port Arthur ha ottenuto i permessi necessari ed è già stato costruito per due terzi dei 780 chilometri di lunghezza: i lavori furono inaugurati personalmente da Barack Obama.
Le polemiche tra i sostenitori della necessità di completare al più presto l’opera e coloro che invece vorrebbero cancellarla o quantomeno far passare il tubo in una zona non sensibile dal punto di vista ambientale hanno anche compreso la discussione su quanti posti di lavoro questa impresa potrà creare. I sostenitori ritengono che ci saranno oltre 20 mila nuovi impieghi, i contrari parlano di qualche dozzina. Alla fine è intervenuta in prima persona la TransCanada dicendo che per la costruzione servono 3.500 lavoratori diretti, mentre per far funzionare l’oleodotto che potrà trasportare 830 mila barili di petrolio al giorno saranno sufficienti 35 addetti.
In attesa della decisione finale, prevista tra la fine dell’estate 2013 e l’autunno, il petrolio canadese e quello americano dei Bakken Field del North Dakota viaggiano in ferrovia fino alle raffinerie. Rotaie, stazioni, locomotori, vagoni, più tutte le infrastrutture appartengono al miliardario Warren Buffett, che ha comprato nel 2010 la società Burlington Northern Santa Fè, conosciuta come Bnsf, per 26,5 miliardi di dollari. Per l’acquisizione Buffett ha utilizzato la sua società cassaforte, la Berkshire Hathaway, che già possedeva il 25 per cento delle azioni della Bnsf e che offrì 100 dollari per azione per il controllo totale. Buffett ha così messo le mani su un’infrastruttura ferroviaria che dispone di una rete lunga oltre 50 mila chilometri: dal Golfo del Messico alla Califonia, dalla regione dei Grandi Laghi ai porti del Pacifico degli Stati di Washington e Oregon. La Bnsf è la seconda società ferroviaria specializzata nel trasporto di merci sia per estensione degli impianti sia per fatturato.
Negli ultimi anni, il Canada ha pompato sempre più oro nero dai suoi giacimenti e ha intensificato lo sfruttamento delle sabbie bituminose. Gli Stati Uniti hanno lanciato quella strategia che vuole il paese autonomo dal punta di vista energetico e hanno accelerato l’estrazione, soprattutto di gas. Per queste ragioni, la domanda di trasporto dell’oro nero fino alle raffinerie o ai porti dove viene caricato sulle petroliere per essere inviato in altri paesi, è così alta che non può essere interamente soddisfatta dalle strutture ferroviarie made in Usa. Nell’ultimo anno l’invio di petrolio via ferrovia è aumentato del 44 per cento, tanto da obbligare tutte le società ferroviarie a nuovi investimenti. Una manna per l’economia americana: gli economisti calcolano che per ogni dollaro investito in binari, vagoni, stazioni se ne generano altri tre in investimenti correlati.
Il fatturato dei treni di Buffett è migliorato anno dopo anno: nel 2010 venivano trasportati 321 mila barili al giorno e la previsione per l’anno prossimo è di 700 mila barili al giorno. Il trasporto via ferrovia costa dai 20 ai 28 dollari al barile, mentre quello via oleodotto è più basso: dai 3 ai 5 dollari in meno rispetto al treno. Il boom di Bnsf, grazie alla domanda maggiore dell’offerta, si è allargato alle società che costruiscono vagoni adatti a contenere il petrolio grezzo e una delle società più importanti, Union Tank Car, appartiene sempre a Buffett.
Il miliardario è diventato il bersaglio preferito della stampa conservatrice che lo indica come il burattino che manovra non solo le manifestazioni degli ambientalisti ma anche il presidente Barack Obama avendolo convinto a rallentare, se non a fermare per sempre, la costruzione dell’oleodotto.
Se non esistono prove di pressioni del miliardario sul presidente (è noto invece il sostegno politico di Buffett a Obama, a cominciare da una politica fiscale che faccia pagare di più ai ricchi, e alcuni finanziamenti nel corso degli ultimi anni alle sue campagne elettorali). La polemica è stata così forte, che Buffett ha deciso di uscire allo scoperto con un comunicato con il quale ha smentito di aver mai parlato con il presidente o con membri del governo dell’oleodotto Keystone. E ha aggiunto: «Non ho alcuna qualifica per avere opinioni che possano aiutare nelle decisioni non essendo un ingegnere, né un geologo».
Ma tutti attendono comunque la decisione finale del governo federale e della Casa Bianca. E quel giorno, le polemiche saranno ancora molto forti. Se Keystone sarà bocciato la destra accuserà il presidente di essere un campione del crony capitalism, il capitalismo degli amiconi, se invece sarà bandiera verde per la pipeline saranno gli ambientalisti a prendersela con la Casa Bianca.