Gianfrancesco Turano, l’Espresso 31/5/2013, 31 maggio 2013
TOTI LIBERA TUTTI
Hanno ceduto uno dopo l’altro vari gioielli di famiglia. E ora è la volta di Gemina. I conti in rosso dei palazzinari romani
I fratelli Pierluigi, Claudio e Stefano Toti, elencati in ordine di apparizione anagrafica, si sono divisi le lauree (giurisprudenza, ingegneria, architettura, rispettivamente) e i mestieri in azienda. In comune hanno il tifo per l’As Roma e l’obiettivo di evitare che il loro business edilizio-immobiliare faccia la fine delle attività dell’ultimo grande presidente romanista Franco Sensi, divorato a pezzi e a fuoco lento dagli istituti di credito dopo essersi immolato a maggior gloria dei colori giallorossi. Quasi un contrappasso dantesco se si pensa che la tenuta Leprignana, una volta di Sensi, è finita in mano proprio ai Toti per un progetto di sviluppo che prevede ville su 120 ettari.
Nel capitolo sport l’annus horribilis calcistico è stato in parte riscattato dalle soddisfazioni sportive della società di famiglia, la Virtus Pallacanestro arrivata alle semifinali dei playoff nonostante una severa cura dimagrante sugli ingaggi. Ma se si parla di affari, la Silvano Toti deve pensare piuttosto alla salvezza che a scudetti e coppe europee.
Negli ultimi anni, i Toti hanno dovuto liberarsi, in successione, della galleria Colonna in centro a Roma (ottimo affare), della partecipazione in Banca Antonveneta (discreto affare), di quella in Banca Leonardo (affaruccio), della quota comprata ai tempi della Capitalia di Cesare Geronzi e passata sotto Unicredit (affare pessimo) e del palazzo della Luiss ai Parioli ceduto per 117 milioni con grande scorno di Francesco Gaetano Caltagirone ad aprile del 2012. In quegli stessi giorni è stata venduta la partecipazione in Rcs e adesso si parla del gioiellino Gemina senza che la situazione finanziaria sia migliorata in modo sensibile. Piuttosto il contrario (box a fianco).
Un marziano a Roma può pensare: a parte la galleria Colonna e la Luiss, che c’entra tutta questa banca e finanza con un costruttore e immobiliarista? Semplice. I Toti si sono adeguati al modello creato da Enrico Cuccia. L’imprenditore prende soldi a prestito dalle banche delle quali, in cambio, diventa azionista. Oltre a questo, c’è il colore locale.
I Toti sono da decenni parte integrante di un impasto inconfondibile fatto di feste al circolo Canottieri Aniene (l’ultima a febbraio per celebrare il presidente Giovanni Malagò vincitore della corsa al Coni), di comparsate in tribuna autorità all’Olimpico, con l’amaro calice servito dalla Lazio in finale di Coppa Italia, e di rapporti molto bipartisan che vanno dal Pd al Vaticano passando per il regista occulto della finanza capitolina di qua e di là dal Tevere, Giampietro Nattino, consultore della Prefettura affari economici della Santa Sede e azionista totalitario della holding Silvano Toti attraverso le sue due fiduciarie Finnat e Fedra.
I tre fratelli guidati dal maggiore Pierluigi, cavaliere del Lavoro dal 2003 e cavaliere della Roma dal 2005 con cerimonia officiata in Campidoglio dal sindaco Walter Veltroni, rappresentano a buon diritto il declino di un modello fatto di banca e impresa intrecciate fra loro e collegate alla politica attraverso il canale di consenso che passa per le gradinate di uno stadio. In realtà, l’ingresso nella Roma è stato più volte annunciato e sempre smentito. I creditori del gruppo immobiliare vedono con raccapriccio un impegno nel settore più rovinoso dell’imprenditoria globale e, anche per questioni di bella figura contabile, hanno ottenuto che la Virtus basket venisse tolta dal controllo della Silvano Toti e piazzata sotto la più anonima Finanziaria Nord Est con intestazione delle azioni in mano alla solita Finnat. In questo modo si evita di aggiungere qualche altro milione di euro di perdite ai circa 240 milioni di rosso aggregato degli ultimi tre anni.
Dopo l’arrivo degli investitori americani nel capitale dell’As Roma si è riparlato dei Toti nella gara per l’area del nuovo stadio. Ma hanno perso contro Luca Parnasi, peraltro loro socio nel progetto di sviluppo Bufalotta-Porta di Roma.
Oltre a Parnasi, i Toti sono o sono stati in affari con tutta la buona società palazzinara romana, dai Caltagirone ai Marchini ai fratelli Abete. Hanno incominciato ben prima che lo stesso termine palazzinaro venisse coniato. Durante il fascismo, il capostipite Silvano Toti ha lavorato con l’ingegnere Antonio Lamaro in uno dei primi progetti di case popolari. Il Clam (case Lamaro affitto mite) è stato il predecessore nell’Era Fascista della legge sull’edilizia agevolata del 1962 che segnò la grande abbuffata mattonara sul territorio nazionale e nella capitale.
Un po’ meno popolari sono i progetti in corso nell’area milanese di Citylife. I Toti sono partiti in grande stile assieme alla Fonsai. Poi i Ligresti hanno dovuto mollare la presa e i Toti hanno limitato la loro presenza alle Torri di lusso di Citylife.
Anche a Roma, che rimane il cuore delle attività, è arrivato il momento di rivedere in modo critico una certa grandeur, la stessa che ha portato a costruire e regalare all’amministrazione dell’amico Veltroni, juventino ma grande aficionado della Virtus Basket, il Silvano Toti Globe Theatre di Villa Borghese, realizzato a imitazione dello storico palcoscenico shakesperariano. O a realizzare con la Lamaro appalti il complesso parrocchiale dedicato a José María Escrivà de Balaguer, allora beato e oggi santo con delega all’Opus Dei, e l’altrettanto pio Campus Biomedico di Trigoria.
Restano in piedi, fra le mille difficoltà del periodo, progetti di peso come le Torri dell’Eur, la riqualificazione dell’area degli ex Mercati Generali all’Ostiense e il Millennium, un megacentro commerciale-residenziale sulla Roma-Fiumicino. La fiducia delle banche sarà decisiva. Del resto, appare obbligata. Un fine poco lieto farebbe male a tutti.