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 2013  maggio 29 Mercoledì calendario

I SALUMI ITALIANI RICONQUISTANO L’AMERICA

Il salame e la pancetta made in Italy sbarcano negli States. E lo fanno all’insegna di un particolarissimo federali­smo da tagliare a fette. Da ieri, infatti, anche i salumi italiani a bassa stagionatura, quelli cioè con meno di 14 mesi di «riposo» potranno essere esportati negli Stati Uniti. Ma soltanto quelli provenienti da Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Pie­monte e dalle province autono­me di Trento e Bolzano hanno avuto il timbro sul passaporto per l’America. Queste regioni, contrariamente alle altre del Centro e del Sud, sono state in­fatti riconosciute come inden­ni dalla malattia vescicolare del suino, che ha costituito ne­gli ultimi anni una «barriera non tariffaria» e ha bloccato l’export negli Stati Uniti fino a oggi di alcuni dei nostri più rino­mati prodotti. Attenzione, pe­rò: a causa della vicinanza di queste regioni ad altre non rico­nosciute indenni, le autorità americane hanno preteso che i salumi destinati all’export ne­gli Usa vengano prodotti solo in stabilimenti espressamente au­torizzati dalle autorità statunitensi, accompagnati da apposi­to certificato sanitario e scorta­ti da un’ulteriore attestazione veterinaria con la quale si ga­rantisca che nell’impianto in cui gli animali sono stati macel­lati non siano stati introdotti carni o animali provenienti da Regioni non indenni da Mvs.
Complicazioni che non tolgo­no il ­sorriso ai produttori di pan­cette, coppe, salami, culatelli e prosciutti delle cinque regioni per il buon esito di una trattati­va durata quindici anni e condotta dalla Assica, l’associazio­ne confindustriale delle carni e dei salumi, e dall’Aphis, l’uffi­cio del Dipartimento dell’Agri­coltura Usa. Perché la novità potrebbe valere una dozzina di mi­lioni di euro. Secondo le elabo­razioni fatte dalla Assica l’export dei salumi italiani, molto amati dai gourmet america­ni, potrebbe passare dai 68 mi­lioni di euro l’anno (5890 tonnellate in termini di quantità) di oggi fino agli 80 milioni del 2014, con un aumento percen­tuale superiore al 17 per cento. E chissà che non si possa fare an­che di più e di meglio, visto il boom del made in Italy agroali­mentare negli Usa (+ 11 per cen­to nel 2012).
Insomma, il via libera (anche se parziale) alle esportazioni negli Usa è una vera mano san­ta per la filiera zootecnica, che vive un momento di forte soffe­renza. Le 26.197 aziende suinicole italiane stanno scontando un forte calo della domanda in­terna (-7,3 per cento in quanti­tà -3,3 per cento in valore). Van­no molto meglio le esportazio­ni, ma le barriere non tariffarie costano alla filiera suinicola, se­co­ndo le eleborazioni dell’Assi­ca almeno 250 milioni l’anno di euro di mancato export. La completa liberalizzazione garantirebbe infatti il primo anno circa 200 milioni di euro di mag­gior export di carni e altri pro­dotti freschi e 50 milioni di euro di salumi e una crescita espo­nenziale negli anni seguenti.
Perdite che si sommano a quelle provocate dalle frodi e dall’ italian sounding, quel fenomeno per cui in tutto il mon­do proliferano prodotti che «suonano» come italiani ma non lo sono. Soltanto negli Sta­tes il 70 per cento dei nostri pro­dotti alimentari è imitato, dalla finta soppressata lucana al cula­tello made in Uruguay. Se pri­ma chi­voleva mangiare un culatello italiano negli Stati Uniti do­veva per forza ricorrere a quello finto, almeno ora potrebbe riuscire a trovare quello vero. Una buona notizia per noi, ma soprattutto per i buongustai a stel­le e strisce.