Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 30 Giovedì calendario

ECCO LA MIA SINFONIA PER ROMA


Un colpo di cannone al Gianicolo e un coro di musica sacra al Fontanone. Una festa scatenata su una splendida terrazza che si affaccia sul Colosseo e un anniversario da consumare: i 65 anni di Jep Gambardella: passato da scrittore celebrato, presente privilegiato da giornalista di costume, che si aggira per le vie e i monumenti di Roma come un Cicerone. Attorno a lui, l’antica Capitale dell’Impero, le acque del Tevere che scorrono placide, una fauna umana di nani e ballerine, intellettuali o presunti tali, ricchi e frustrati, cardinali che preferiscono le ricette della buona cucina ai sermoni e sante alla Maria Teresa di Calcutta, capace (un miracolo?) di far apparire all’alba uno stormo di fenicotteri, adagiati sui davanzali per riposarsi dal lungo viaggio di trasmigrazione. E c’è una citazione di Louis-Ferdinand Céline, da Viaggio al termine della notte, «per mettere subito le mani avanti». È la finzione, bellezza. «Faccio film», ammise candidamente un giorno Federico Fellini, «perché mi piace raccontare delle bugie, inventare delle fiabe». Fingere, reinventare, ricreare. Per avere quanto meno la sensazione di avvicinarsi il più possibile alla realtà. "Quando sono arrivato a Roma, a 26 anni", confessa Jep Gambardella, il protagonista de La grande bellezza di Paolo Sorrentino, "sono precipitato abbastanza presto, quasi senza rendermene conto, in quello che si potrebbe definire il vortice della mondanità. Ma io non volevo essere semplicemente un mondano: volevo diventare Il Re dei Mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire".
Jep è un giornalista, come era giornalista Marcello Rubini in La dolce vita di Fellini. «Quando affronti un film del genere è impossibile non fare i conti con Fellini», confessa un rilassato Paolo Sorrentino, che si dona a quest’intervista fluviale con la consapevolezza di aver realizzato ciò che aveva in mente. «Non solo La dolce vita, anche 8 e 1/2, Giulietta degli spiriti e Roma, perché La grande bellezza lavora molto sul tema della fatica dello scrivere, che era uno dei temi fondanti proprio di 8 e 1/2. Inutile negare: così come siamo stati abituati dalle nostre famiglie alle buone maniere, chi fa un certo tipo di cinema è stato educato da Fellini. Ovviamente stando attento a non imitarlo». Trait d’union con 8 e 1/2, appunto, la professione del protagonista. «Un giornalista ha lo sguardo giusto sulle cose. Non volevo correre il rischio che gli accadimenti che desideravo raccontare mi facessero prendere la mano dall’indignazione, dall’atteggiamento giudicante. Quella situazione in cui sei tentato di dire: "Qui c’è troppa volgarità, là troppa decadenza". L’occhio di Gambardella è salvifico perché è un occhio disincantato, che ne ha viste passare un po’ di tutti colori, e quindi nulla lo sconvolge più di tanto». Un’idea che parte da lontano. «Sì, è abbastanza antica: non saprei rintracciare un momento preciso, però sin da quando sono venuto a Roma per lavoro e poi in seguito ad abitare, ho sempre raccolto prima in un angolo della testa, poi trascrivendoli su carta tanti piccoli aneddoti, personaggini, situazioni che vedevo proprio a Roma. Da tempo pensavo di far confluire tutto questo materiale in un film. C’ho messo molto, perché mi mancava un collante che tenesse tutto assieme, poi l’ho trovato nel personaggio di Jep. Che è sì un Cicerone, ma ha pure una vita propria. Legata a una certa storia nostalgica, malinconica, a quella ragazza amata in gioventù». Una sorta di nostalgia della bellezza, una lettera d’amore inviata brevi manu a Roma. La grande bellezza è un film denso, pieno, che lavora molto sulle divagazioni.

«La prima versione dura 3 ore e 10 minuti e si vedrà tutta nel dvd», anticipa Sorrentino. "È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza; e poi lo squallore disgraziato. E l’uomo miserabile": Jep Gambardella (sue le parole, riportate nel trailer che ha circolato prima che il film passasse in concorso a Cannes) non fa sconti. Perché La grande bellezza mira in alto. E come in Fellini, è il non senso della vita a bruciare, sotto la cenere, come sottotesto. «Il tentativo era praticare una bellezza che si sposasse con la vertigine del vuoto. E il fatto di avere un protagonista che fa anche lo scrittore mi ha aiutato a dare un barlume di luce in fondo al tunnel. Infatti, poi, Jep finisce con lo scrivere un libro che di fatto racconterà ciò che si vede nel film. Le situazioni reali mi sono servite da spunto, poi le ho completamente ricostruite. Per intenderci: la festa che apre il film nella realtà è più brutta, la rappresentazione cronachistica sarebbe stata in sé tremenda; si spera sempre che una reinvenzione abbia un ruolo doppiamente appagante, cioè quello di lasciarti un benessere come spettatore e al tempo stesso di dirti: sì, effettivamente le cose non è che stanno proprio per il meglio».
Un film sull’oggi senza attualità, a televisioni spente. Per mostrare la fine del mito di Via Veneto, per esempio, basta una scena notturna dove solo per caso puoi incontrare Fanny Ardant (che si è concessa come comparsa di se stessa) e dove è molto più facile inciampare in qualche cinese o in qualche arabo che, nell’assenza totale di paparazzi, flash e cronisti, mangia in solitudine piatti ipercalorici. Situazioni ambivalenti: un po’ ci si autocondanna e un po’ ci si autogiustifica, svelando tratti di umanità dai quali in passato sia Servillo sia Sorrentino parevano tenersi alla larga. Forse per la prima volta vediamo l’attore feticcio del regista, che lo ha già diretto in L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore e Il divo, scendere dall’olimpo della perfezione, manifestare le sue debolezze, avvicinandosi come non mai al pubblico, anche grazie all’uso del dialetto napoletano; un Toni Servillo "sciolto", dimentico della sua mostruosa bravura, che a volte può apparire un po’ troppo tecnica e mettere in soggezione. «Abbiamo pescato in un terreno comune», rimarca Sorrentino parlando della sua fertile collaborazione con Servillo. «Che è proprio di un certo tipo di napoletano, un certo tipo di uomo che ha le caratteristiche del provinciale, che viene nella Grande Capitale e che quindi adopera il cinismo come una specie di schermo per proteggersi dalle tentazioni di mondi che non riconosce immediatamente. È un po’ dandy e un po’ disincantato, non crede mai fino in fondo alle cose, come succede a me. Siamo tutti figli delle biografie individuali, ognuno dei traumi che subisce. La realtà diventa sempre troppo dolorosa per farti innamorare della vita in maniera spassionata, senza pensare che dietro ci sia il trucco. Jep, proprio perché così disincantato, finisce per fare l’unica cosa possibile e cioè si va a rifugiare in quel momento della sua vita in cui credeva fino in fondo alle cose: il momento dell’adolescenza in cui conosci una ragazza, quando pensi che il presente corrisponda perfettamente al futuro».

Nostalgie. Autobiografie. In fondo, Jep è un napoletano a Roma esattamente come Paolo. «Di autobiografico in La grande bellezza c’è sicuramente il credere nostalgicamente solo a quel momento della tua vita in cui credevi alle cose prima che diventassi adulto. Può essere che qualcuno la legga come una sterile nostalgia, ma mi sta bene: oggi è di moda chi combatte con veemenza la nostalgia, come se fosse una specie di parolaccia: io, invece, non ci vedo francamente niente di male. Il che non significa che uno abbia un atteggiamento neghittoso verso il presente. Come dice Romano (interpretato da Carlo Verdone, ndr) nel film: la nostalgia è l’unico svago che rimane a chi è diffidente verso il futuro. Di autobiografico, inoltre, c’è naturalmente una smodata curiosità e uno smodato stupore nei confronti di Roma. Che io, essendo venuto a vivere in città da 6 anni, ho travasato nel film, a rischio anche di prendermi dei pomodori, perché ci sarà qualcuno che dirà che ne ho dato una rappresentazione turistica. In effetti mi sento una specie di turista senza biglietto di ritorno: continuo a girare la città, a scoprirla e a stupirmi di quanto sia irresistibile, checché se ne dica». Due parole magiche: Verdone e Roma, un attore icona e una città che possiede una seduzione irresistibile. «Ho tentato di raccontare quello che mi piaceva del centro storico. Non sono riuscito a raccontare tutto, perché Roma – fedele al suo totale menefreghismo nei confronti di qualsiasi cosa – non è sensibile nemmeno agli omaggi. A Palazzo Colonna, per esempio, che a mio parere è il più bello di tutti, non si può girare, è vietato. E poi c’è una norma che ti costringe a stare con la cinepresa a 7 metri da un monumento, quando noi sappiamo che una delle leggi fisiologiche di ogni singola inquadratura dice che, se sfiori le cose, quelle cose ti appariranno più belle. All’inizio, la casa di Jep non doveva affacciarsi sul Colosseo, ma su Piazza San Pietro, perché volevo che si muovesse costantemente in quel pullulare di vita che fa capo al Vaticano e che fin da ragazzo mi affascina, fra suorine e pretini: un mondo ridicolo ma anche molto misterioso, due cose che fanno a cazzotti. Con Carlo Verdone erano anni che volevo lavorare e, quando gli ho fatto leggere il copione, con quel personaggio di drammaturgo che viene dalla provincia sognando di fare il grande teatro a Roma, ha aderito subito, perché è un personaggio diverso da quelli che lui interpreta normalmente. Per lui vale il luogo comune del comico che convive perennemente con una nota di malinconia: Carlo è uno che non ride quasi mai, che sta sempre un po’ assorto; poi magari riesce a farti ridere in un secondo, ma lui non ride e quindi era perfetto per il suo ruolo». Sprazzi di bellezza romana (per dirla con Jep) sono anche i simboli della romanità contemporanea. Come Verdone, appunto, come Francesco Totti (evocato a inizio film attraverso il titolo di un giornale), come Sabrina Ferilli (che qui è spogliarellista e figlia di un vecchio amico di Jep), come Antonello Venditti (che appare in un cameo nel ruolo di se stesso). «Con il personaggio di Sabrina ho provato a mettere le mani in mondi più popolari, poco frequentati. Ferilli è una donna fisicamente importante, al di là della bellezza e del sex appeal; e, come Carlo, anche lei ha una specie di nota dolente che l’attraversa, invisibile alla socialità, che io ho sempre avuto la presunzione di percepire. Antonello mi pareva naturale, nella storia, che fosse il cantante preferito di Ramona, il personaggio interpretato da Sabrina. E poi Venditti è profondamente cinematografico, è proprio un’icona: anche se lo vedi da vicino, continua a essere, per te, quello che hai visto sempre sulla copertina di un disco e quindi non ti sembra vero. Ci sono persone che riconosci subito come vicine a te, altre che ti continuano a sembrare lontane. Venditti è così: sarà per i capelli, sarà perché porta perennemente gli occhiali – è impossibile vederlo senza – rimane sempre un soggetto distante, che si scherma, appunto, con quegli occhiali e si avvampa di mistero».

Nel raffinato ed eclettico gioco tra alto e basso di cui si compone anche la colonna sonora (le belle musiche originali sono di Lele Marchitelli), c’è ovviamente Venditti (e la sua Forever) e c’è Bruno Lauzi (Ti ruberò, ballata da una schiera di alti prelati, quasi una risposta affettuosa a Ritornerai, sempre di Lauzi, e alle danze familiari sulla terrazza di casa del prete Nanni Moretti in La messa è finita). E c’è, soprattutto, Far l’amore, remix di Bob Sinclair di A far l’amore comincia tu, tormentone di Raffaella Carrà. «È stato il coronamento di un sogno: so che a molti farà orrore sentirmelo dire, ma io trovo che la produzione musicale della Carrà sia meravigliosa. Ho un debole assoluto: le sue canzoni sono sempre attraversate da una prudérie erotica anche spregiudicata per l’epoca in cui sono state fatte, sempre così ammiccanti e giocose, e che ti invitano chiaramente ad amplessi sconsiderati. Ovviamente, sono cose ascoltate da ragazzino, quando gli ormoni veleggiavano. L’idea che sta alla base delle scelte musicali è di una semplicità quasi banale: una delle cose che ho sempre sentito dire di Roma è questa sua capacità di tenere unito sacro e profano; e allora ho pensato: più che raccontare questa cosa attraverso le immagini — se non proprio nelle prime due scene, dove c’è un chiaro accostamento fra il sacro (il coro) e quel precipizio dentro alla festa più becera e più volgare che si possa concepire – l’ho delegato alla musica. Roma è davvero un grande calderone, dove il sacro e il profano convivono fianco a fianco. L’idea musicale, insomma, corrobora questo stereotipo: le canzoni della Carrà o i remix di Carosone mischiati alla musica minimalista sacra, che si rifà ad Arvo Part e ai suoi epigoni. Part, in un’intervista, disse di aver sviluppato il minimalismo sacro dopo aver ascoltato un canto gregoriano particolarmente misurato. La sua intuizione fu di utilizzare la disarmonia per creare l’armonia. Mi è subito parso emblematico di quello che volevo fare con questo film: provare a fare entrare degli oggetti tra loro disarmonici e farli suonare insieme».