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 2013  maggio 29 Mercoledì calendario

PRIVATIZZARE I TRIBUNALI IL PIANO DI LONDRA CHE DA NOI E’ UN’ERESIA

Si mettono ancora in testa le parrucche, ma non hanno tabù. I giudici di Sua Maestà affrontano senza pregiudizi i tor­nanti della possibile privatizza­zione della giustizia. I costi sono stellari, il mondo cambia e alla fine anche a Londra un te­ma così complesso e più problematico di un rompicapo vie­ne analizzato con spirito laico. In Inghilterra non tutto quello che succede viene interpreta­to avvicinando l’occhio al bu­co della serratura di casa Cameron. Da noi, figurarsi, anche so­lo cedere a qualche imprendi­tore un centimetro quadrato del palazzo di giustizia di Mila­no provocherebbe scioperi, al­zate di scudi, lenzuolate di ap­pelli con corredo di firme nobi­li. Si griderebbe al complotto e, passati i canonici cinque minu­ti, qualcuno rintraccerebbe l’immancabile zampino del Cavaliere dietro l’operazione.
In Inghilterra, come ricorda­va ieri il glorioso Times che ha dedicato all’argomento un am­pio articolo in prima pagina, il servizio giustizia funziona be­ne o male dai tempi della Ma­gna Carta, quindi dal 1215. Un percorso lungo ottocento anni ma questo non significa difen­dere lo status quo come fosse un dogma o abbandonarsi ad acute geremiadi contro il nemi­co che come un gigantesco po­lipo mette le mani su una fun­zione dello Stato così delicata e importante.
Naturalmente ci sono diver­si progetti e studi sul tavolo. C’è chi propone di trasferire ai privati solo gli edifici e chi si spinge più in là immaginando che anche il personale ammini­strativo di Inghilterra e Galles riceva un domani lo stipendio da qualche big dell’industria. Insomma, c’è un piano A e c’è pure un piano B, e comunque si ragiona e si discute con pare­ri e contropareri di politici, av­vocati e magistrati. Nessuno ovviamente pensa che il giudi­ce possa essere al servizio di un privato, quello no, eresia e sacrilegio, ma per cercare di argi­nare gli ingenti costi del settore tutti sono pronti a valutare con serenità e realismo le più dispa­rate ipotesi. Nessuno indossa i sacri paramenti della casta.
Esattamente il contrario di quel che succede da noi. In Italia anche solo a evocare la separazione delle carriere - ­ricorda­te l’inconcludente tormento­ne di qualche anno fa? - ci si straccia le vesti, perché questo passaggio minerebbe l’autono­mia dei pm. Nel nostro Paese le riforme, specie quella della giu­stizia, si annunciano ma non si fanno, come non si è realizzato il nuovo codice penale, scritto e riscritto ma solo virtualmen­te da un’interminabile successione di commissioni di de­stra, di sinistra e di centro, con produzione di tomi puntualmente impilati in un cassetto. Proprio com’è successo con le tanto sbandierate udienze po­meridiane: dalle 14 in poi i tri­bunali sono deserti. E così an­che solo cambiare una lampa­dina bruciata nei corridoi de­chirichiani della cittadella am­brosiana del diritto può essere un problema nel labirinto del­le competenze e della burocra­zia. In Italia la parola manager risveglia antichi sospetti e re­tropensieri e allora, per supera­re anche questa curva pericolo­sa, si è puntato sui giudici-ma­nager, centauri postmoderni in grado di coniugare gli artico­li del codice penale e le voci del bilancio. Dunque, non è cam­biato nulla. Ci vorrebbe, anche a Roma, un po’ di spirito anglosassone. Per esempio l’empirismo antii­deologico che si ricava dalle pa­role di un magistrato della Cor­te suprema americana, Anto­nin Scalia. Scalia, in Italia su in­vito dell’Istituto Bruno Leoni, è stato chiaro e pungente nei suoi colloqui con La Stampa e il Corriere della sera: «L’attivi­smo giudiziario è un abuso di potere e distrugge la pretesa dei magistrati di essere il legitti­mo arbitro finale del significa­to delle leggi». Fra le tante illu­sioni, nel nostro Paese si colti­va anche l’idea che il giudice sappia gestire budget e risorse come gli imputati e le pene. Er­rore. Il nostro sistema, per tan­te ragioni, boccheggia e le rifo­r­me nascono e muoiono dentro i convegni. Davvero, ci vorrebbe un tocco di british style, an­che con le parrucche in testa.