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 2013  maggio 29 Mercoledì calendario

LA VERSIONE DI BISIGNANI TRA MESSAGGI E AMNESIE

Più di trent’anni al centro di ogni trama, spesso protagonista, sempre testimone. Dalla P2 di Licio Gelli a Giulio Andreotti, da Silvio Berlusconi a Mario Monti, da Cesare Geronzi a Massimo D’Alema. La galleria di Luigi Bisignani è ricca di ricordi maliziosi e maliziose dimenticanze. Ecco un’antologia dei ricordi più interessanti che non ha censurato.
B., Dell’Utri e i piccoli uomini
Dunque nel 1976 lei conobbe Berlusconi. Mi racconti... Quando Silvio venne a Roma mi prese subito in simpatia. Allo stesso modo stabilì un rapporto di grande cordialità con Luigi Zanda, figlio dell’ex capo della polizia Efisio e oggi capogruppo del Pd al Senato, ma allora consigliere di Francesco Cossiga. L’ufficiale di collegamento fu Fedele Confalonieri, già allora vero alter ego del Cavaliere. Il bello di Berlusconi era che ascoltava tutti, faceva finta di considerare fondamentali tutte le osservazioni, per poi fare di testa sua. Come per esempio capitò per gli acquisti di Rete4 e del Milan. In entrambi i casi, pur facendoci sembrare le persone più importanti del mondo, fece l’esatto contrario di quanto gli avevamo suggerito. C’era solo una persona che non contraddiceva mai: Marcello Dell’Utri. (...)
(Le ultime traversie di B.) Più che di tradimento vero e proprio parlerei di piccoli uomini creati da Berlusconi dal nulla e improvvisamente convinti di essere diventati superuomini. Il primo che mi viene in mente è Renato Schifani, avvocato della provincia di Palermo, ex presidente del Senato. Con Angelino Alfano, altro siciliano, lavoravano alla costruzione di una nuova alleanza senza Berlusconi. Si montavano a vicenda, senza capire che, quando è ferito, Berlusconi dà il meglio di sé. Una volta incoronato, nell’estate del 2011, contro il parere di tanti, Alfano ha pensato soprattutto a costruire un monumento a se stesso. Se ne stava chiuso nel suo ufficio bunker in via dell’Umiltà. E poi ha la debolezza di consultare sempre l’oroscopo e di regolare le giornate in base a quel che c’è scritto. Il suo astrologo di riferimento è uno solo: Branko.
Gheddafi e la foto di D’Alema
Massimo D’Alema, quand’era presidente del Consiglio, fu il primo a riallacciare i rapporti con la Libia, dove nessun capo di governo italiano aveva piu messo piede dal 1992. La sua visita si apri con un bel siparietto sotto la famigerata tenda. Con molta enfasi Gheddafi fece notare al premier che poteva essere discendente della famiglia Ben Halima, proveniente dalla citta cirenaica di al-Beida, la stessa di sua moglie. D’Alema, maestro nell’affermazione dei ruoli, confermò la propria origine araba ma disse di non aver mai considerato quella cirenaica. Gheddafi lo riteneva l’unico interlocutore internazionale del quale aveva una certa soggezione. (…) Bruno Vespa e io siamo stati, probabilmente, e sia pure in posti diversi, tra gli ultimi italiani a trascorrere qualche settimana in Libia poco prima della fine del lungo regno di Gheddafi iniziato nel 1969. Tripoli sembrava tranquilla. In città campeggiavano in bella mostra grandi cartelloni stradali con le immagini sorridenti di Gheddafi e Berlusconi che siglavano il Trattato di amicizia. E all’ingresso del Museo della Rivoluzione, accanto al maggiolino verde con cui il colonnello Gheddafi aveva inaugurato la presa del potere, anche la grande fotografia di un altro politico italiano, Massimo D’Alema.
Zio Letta meglio del nipote
Non c’è nulla di più falso dell’immagine di un Gianni Letta sempre piegato ai voleri del Cavaliere. E ne ho innumerevoli testimonianze dirette. Per esempio quando Berlusconi, insieme a Fini, fece saltare l’accordo sulla Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Letta fece sapere a D’Alema che il Cavaliere aveva commesso un errore. (...) In questo momento (a Berlusconi, ndr) gli piace moltissimo l’imprenditore Alfio Marchini, pupillo di Gianni Letta e candidato sindaco di Roma, cui vorrebbe affidare un ruolo nel centrodestra contro il parere di tutti i suoi.
Il filo diretto tra Letta e Loris D’Ambrosio, il consigliere giuridico di Napolitano recentemente scomparso, era davvero intenso. In molti accusano Letta di essersi prestato a far si che il presidente della Repubblica avesse un controllo preventivo degli atti del governo. Una circostanza davvero irrituale. Ma a questo si è giunti perché Berlusconi negli ultimi due anni del suo mandato è stato troppo occupato a difendersi dall’attacco mediatico-giudiziario. (…) Enrico Letta, abile tessitore di rapporti politici, ha dimostrato poco carisma quando è stato al governo da ministro dell’Industria (D’Alema e Amato) e sottosegretario alla presidenza di Romano Prodi (2006-2008).
Grillo e gli americani
Il modo in cui i servizi americani stanno attenzionando Beppe Grillo e il suo movimento. Centinaia di informative, leaks, come si usa dire dopo Assange, rapporti sui 5 Stelle e sulla loro attività. A pensar male si fa peccato, come dice Andreotti, ma quasi sempre si indovina. Mi sembra di rivedere il film con cui alcuni diplomatici Usa accompagnarono la corsa di Antonio Di Pietro all’epoca di Mani pulite. Tutto parte dal protocollo numero C17586026, che sigla il primo documento sul MoVimento 5 Stelle. Destinatari: il Dipartimento di Stato e altri uffici governativi di Washington. Stiamo parlando di una informativa redatta nel 2008, quando il fenomeno Grillo era ancora di là da esplodere. Il resoconto di un pranzo tra Beppe Grillo e alcuni diplomatici e agenti americani. Un fatto anomalo per uno che in Italia rifiuta ogni contatto. (...) Agli americani è noto il rapporto strettissimo che Grillo ha con Umberto Rapetto, un ex colonnello della guardia di finanza. Rapetto [è anche amico] anche degli americani, di sicuro. E per un suo precedente incarico di capo del Gat, il Gruppo anticrimine tecnologico della guardia di finanza, è considerato uno dei più importanti esperti al mondo. Era molto consultato tra le agenzie di intelligence Usa. Rapetto ora lavora per Franco Bernabè in Telecom.
De Bortoli, amico ingrato
(Ferruccio de Bortoli è direttore del Corriere dal 2009, dopo esserlo stato dal 1997 al 2003). Quella con De Bortoli e una storia personale che mi ha umanamente amareggiato. (…) Sempre compassato, dotato di una camaleontica capacità di infilarsi tra le pieghe del tuo discorso e di una grande dialettica, non sufficiente però a nascondere il fatto di non avere quasi mai un’opinione troppo discorde da quella dell’interlocutore: democristiano con i democristiani, giustizialista con i giustizialisti, statalista o liberista a seconda di chi ha davanti. Favorii certamente i suoi rapporti con Cesare Geronzi, ma non con D’Alema, visto che i due si detestavano cordialmente. E durante il governo Berlusconi i motivi di contatto sono stati molteplici. Mezzo governo del Cavaliere mi chiedeva riservatamente di mediare con lui, sollecitando la pubblicazione di interviste o di lettere. Verso le dieci di sera, quando il giornale stava chiudendo, spesso Ferruccio mi interpellava via sms per la conferma di una notizia, di una nomina o del varo di un provvedimento. Quando veniva a Roma alle cene della mitica Maria Angiolillo, per incontrare il presidente Napolitano o il governatore Draghi, non mancava mai di salire nel mio vecchio ufficio di piazza Mignanelli. (...) Alcuni anni fa ricordo che mi consultò per rispondere a un editoriale di Scalfari in cui veniva accusato di essere filogovernativo, dunque pro Berlusconi. (…) Mi sono sempre chiesto come mai il destino abbia voluto che in nessun giornale sia mai uscita una sola conversazione o un sms tra me e il direttore De Bortoli. Ritengo che la mancata diffusione delle intercettazioni tra me e De Bortoli sia stato uno spartiacque importante per amplificare l’inchiesta sul giornale. Una parte della redazione, secondo me, con lo spauracchio del clima creatosi intorno a quelle intercettazioni, ha messo sotto tutela il direttore. Il quale non ha potuto fare altro che amplificare l’inchiesta. (…) Ma è acqua passata. Anche se ogni tanto torna, e non solo a me, la curiosità di conoscere perché Ferruccio non ammise che ero, oltre che una sua fonte, anche un suo amico.
Scalfari, amico ingrato 2
Quando ero capo ufficio stampa del ministero del Tesoro presieduto da Gaetano Stammati [1976-1979, ndr], [Eugenio Scalfari] fu il primo direttore a fidarsi di me e a consultarmi come fonte riservata. Fine anni Settanta, quando ancora la Repubblica stentava a decollare e perciò l’obiettivo era di cavalcare il più possibile le notizie. (…) E Scalfari aveva avuto prova che non gli avevo mai rifilato patacche. Ogni volta che lo aiutavo a fare uno scoop mi mandava una bottiglia di champagne. (...) Quando conclusi l’esperienza con Stammati, andai a trovare Scalfari e lui mi propose di scrivere per il giornale. Alla fine non se ne fece nulla, anche se mise una buona parola per farmi collaborare con l’Espresso pur rimanendo all’Ansa. Quando nel 2011 scoppiò il caso della P4, Scalfari scrisse: “Il sistema Bisignani e la messa in comune di informazioni riservate d’ogni genere”. Le stesse a cui lui un tempo aveva attinto a piene mani, ma forse se n’à dimenticato.
Geronzi in cerca di poltrone
Nel suo libro-confessione Confiteor, scritto con Massimo Mucchetti, oggi senatore del Pd, il banchiere Cesare Geronzi scrive che con lei praticamente non aveva rapporti.
Quella con l’Imperatore, lo chiamo con il soprannome che gli avevo dato e che poi di fatto l’ha accompagnato per tutta la sua carriera, è una storia lunga e complessa. Che finisce in un meschino tradimento. Geronzi sembra vergognarsi del suo passato. Questo lo ha portato a dimenticare tutti quelli che lo hanno aiutato e protetto. Con un voltafaccia politico clamoroso, per uno come lui, anticomunista viscerale. Per come è finito Bersani, quel passaggio, piu che a Geronzi, e servito solo a favorire la discesa in politica di Mucchetti. Non mi meraviglia, comunque. Cesare, anche se finge di dimenticarlo, è stato, piu di chiunque altro, andreottiano con Andreotti, demitiano con De Mita, ciampiano con Ciampi e, fino a poco tempo fa, berlusconiano. Chiaro che nei confronti del Cavaliere, ma soprattutto di Letta, Geronzi si è voluto vendicare. Una volta rimosso dalla presidenza delle Assicurazioni Generali, è andato da loro a piatire una poltrona alle Poste. Me lo ha confermato Giulio Tremonti, verso il quale Geronzi nutriva un timore reverenziale.
Il giovane Monti
Nei pochi minuti che aspettava in anticamera prima di essere ricevuto mi raccontava sempre molto compiaciuto di un convegno internazionale sulla nuova inflazione, per lui il debutto nei palazzi del potere. Timido, ossequioso. E già allora grande arrivista? È sempre stato un silenzioso suggeritore delle mosse dei governi, da Stammati fino a Paolo Cirino Pomicino, ministro del Bilancio. Fu proprio lui in quegli anni – ma non me lo volle mai confermare – a spingere Rinaldo Ossola, ministro del Commercio con l’estero, a varare uno speciale provvedimento di restrizione valutaria. Cosa che provocò l’irritazione di Stammati. “Quando Monti si innamora delle proprie idee – mi disse con aria bonaria – cerca sempre e solo l’interlocutore che lo può agevolare nel suo disegno di crescita personale”. Potrebbe essere il giusto epitaffio della sua rovinosa campagna elettorale 2013.
Fermate Mani pulite!
Sugli ultimi giorni del capitalismo italiano, passati cercando di sopravvivere e contenere la travolgente avanzata delle inchieste, si sa poco o nulla. Si sa poco o nulla di come i protagonisti sotto assedio, tutti indistintamente, da Agnelli a De Benedetti, cercarono disperatamente di bloccare il pool dei giudici di Milano, serrando le fila prima del si salvi chi può. Dopo le prime ammissioni sul sistema delle tangenti, erano scattati i primi arresti che facevano presagire venti di guerra. Fu a Mediobanca che si tenne una riunione riservata, presieduta da Enrico Cuccia, il custode di tutti i segreti. Vi presero parte, oltre all’avvocato Agnelli e a Cesare Romiti, Leopoldo Pirelli accompagnato da Marco Tronchetti Provera, Carlo De Benedetti, Giampiero Pesenti, Carlo Sama per il Gruppo Ferruzzi, e ovviamente l’amministratore delegato dell’istituto Vincenzo Maranghi. Fu unanimemente decisa la totale chiusura a ogni possibile collaborazione con la Procura di Milano. Insieme alla perentoria denuncia dei metodi e dell’azione dei magistrati, che stavano destabilizzando il paese e la sua economia. (...) Cuccia aveva impartito ordini a quegli imprenditori che avevano interessi nell’editoria e che dovevano supportare questa linea attraverso i loro giornali, senza tentennamenti.

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IL BURATTINAIO INVISIBILE CHE TIRA ANCORA I FILI DEL POTERE -
Un giallo presunto (il ritardo nell’uscita in libreria) e un giallo vero (una spy-story in lavorazione, annunciata con un titolo alla Grisham: Il direttore). In mezzo, c’è L’uomo che sussurra ai potenti, intervista di Paolo Madron a Luigi Bisignani, ovvero “l’uomo più potente d’Italia” (copyright Silvio Berlusconi), o “l’uomo più conosciuto che io conosca” (secondo Gianni Letta). Esce domani, edito da Chiarelettere, dopo un’attesa che ha fatto favoleggiare di problemi, intoppi, veti. “Normale lavoro redazionale, lo facciamo con tutti i nostri volumi”, spiega l’editore Lorenzo Fazio. “Abbiamo avuto pressioni fortissime per non farlo, questo libro”, butta lì Madron. Ma infine eccolo, 326 pagine fitte di domande e di brevi risposte. Una storia dei poteri italiani visti dall’interno, dettata da un personaggio che parla per la prima volta, dopo aver fatto per trent’anni del silenzio, della riservatezza e del mistero la cifra del suo strano successo. Se chi è abituato all’ombra esce allo scoperto, qualcosa dev’essere accaduto. E allora ecco il vero giallo di questa operazione: parla perché ormai è stato stanato, dopo l’indagine sulla P4, l’arresto, il patteggiamento? Quando racconti le tue trame, il tuo potere svapora. Un altro Grande Potente Silenzioso, il banchiere Cesare Geronzi, ha recentemente affidato il suo Confiteor a Massimo Mucchetti. “Ma nell’ufficio di Geronzi oggi i telefoni non squillano più, nessuno arriva a interrompere”, constata Madron. “In quello di Bisignani è sempre un fuoco di fila di telefonate, richieste, appuntamenti, incontri”.
Non è dunque un libro di memorie, confezionato prima di ritirarsi in buon ordine al termine di una lunga carriera di faccendiere, o lobbista, o “triangolatore”, o “uomo che collega” (lui preferisce “stimolatore d’intelligenze”). La corsa continua. Era iniziata tanto tempo fa, quando Bisignani era un giovane giornalista cresciuto all’ombra di poteri forti davvero, i Rocca della Techind, i Ferruzzi della Montedison, Giulio Andreotti di una Dc romana, siciliana e papalina, lo Ior, la P2 di Licio Gelli, Gaetano Stammati, Roberto Calvi, Silvio Berlusconi. Negli anni Novanta attraversa la stagione di Mani pulite incassando una condanna (3 anni e 4 mesi per aver smistato la maxi-tangente Enimont, ridotti in Cassazione a 2 anni e 8 mesi), eppure resta il custode silenzioso di segreti ancor oggi non svelati: personaggi mai entrati nelle inchieste (come “Omissis”, ovvero Giulio Andreotti); miliardi sfuggiti anche ad Antonio Di Pietro (tra il 1991 e il 1993, Bisignani ha ritirato dallo Ior, in contanti, 12,4 miliardi di lire da un conto su cui ne sono passati almeno 23). Conosce bene il potere. Sa che in Italia c’è quello visibile, fatto di istituzioni e cariche elettive, e quello invisibile, fatto di relazioni. Su questo ha sempre lavorato. Perché il potere “si trasmette e funziona anche in luoghi meno riconoscibili e controllabili, si moltiplica e può riprodursi in maniera nascosta e a volte ambigua e misteriosa”. I “luoghi meno controllabili” in cui si muove a occhi chiusi sono, per esempio, “l’ufficio legislativo del Quirinale, quello di bilancio della Ragioneria generale dello Stato e della Protezione civile. I fondi riservati dei servizi segreti, i centri spesa degli enti locali”. È questa la sua arte di tessitore: pilotare nomine, costruire carriere, decidere gli organigrammi del potere. Creare alti funzionari e generali. Gli affari poi seguiranno, come l’intendenza di Napoleone. Ne cita alcuni: il passaggio (fallito) dei periodici Rcs al gruppo Farina di cui è manager e (inedito) il tentato acquisto dagli Agnelli del quotidiano La Stampa, in alleanza con Gianni Consorte, nel 2005 quando era ancora ai vertici di Unipol.
Per il resto, il libro è pieno di aneddoti utilissimi a costruire una fenomenologia del potere italiano, opaco e occulto: una Repubblica fondata sul ricatto. Ma chi è a caccia di rivelazioni resterà deluso. Ci sono tante piccole storie, alcune vendette, rese dei conti, messaggi in bottiglia, avvisi ai naviganti, pizzini. E una glorificazione: quella di Andreotti, nume tutelare di “Bisi”. Ecco come lo racconta, il giorno dell’arresto di Totò Riina, nel salotto di Sandra Carraro al Gianicolo: “Commentò stupito: ‘Chi se lo sarebbe potuto immaginare che il capo della mafia potesse indossare una giacca di tweed verde come se fosse in un circolo inglese?’. Poi continuò tranquillamente la partita a carte”.
Allinea ipotesi assurde, al limite del depistaggio: “Falcone sarebbe stato eliminato perché collaborava a una spinosa indagine della magistratura russa sui finanziamenti del Kgb al Partito comunista”. Poi, per dare sale al libro, dispensa qualche cattiveria: per Franco Bernabè di Telecom, per Alessandro Profumo di Unicredit, per Ferruccio de Bortoli del Corriere, per Cesare Geronzi (“Ho trovato davvero ingeneroso che abbia banalizzato e misconosciuto il ruolo di Andreotti, a cui deve gran parte della sua fortuna”). E per Angelino Alfano, accusato di aver tramato contro Silvio (ma non c’era anche “Bisi” tra coloro che hanno lavorato sotto traccia per il dopo-Berlusconi?). In un libro come questo, però, le assenze sono più importanti delle presenze. Mai citato Paolo Scaroni di Eni. Neppure una riga per Enrico Cucchiani di Intesa Sanpaolo. Luca Cordero di Montezemolo non pervenuto.