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 2013  maggio 30 Giovedì calendario

TRA SUONI E SCULTURE (AL RABARBARO): LA LEGGEREZZA ITALIANA - —

Il suo presidente, Paolo Baratta, l’ha definita ieri la Biennale «antidepressiva»: capace cioè «con la sua energia di iniettare fiducia, unico efficace antidoto contro la crisi imperante». E se sempre Baratta cita, a conferma della teoria, il fatto di aver scelto un curatore giovanissimo come Gioni, Bartolomeo Pietromarchi, a sua volta curatore del Padiglione Italia della 55esima Biennale, alla vigilia dell’arrivo del ministro Bray (previsto per stamani), sembra godersi pienamente il risultato dei suoi sforzi, dunque anche lui a suo modo colpito dall’effetto antidepressivo di Baratta. D’altra parte «vice versa», questo il titolo della mostra di Pietromarchi alle Tese delle Vergini, in Arsenale, piace. Almeno questa è l’impressione che gli trasmettono (a cominciare da un entusiasta Achille Bonito Oliva) i visitatori della preview («Sono troppi perché siano tutti solo miei amici», scherza): «Volevamo raccontare — spiega sorridendo Pietromarchi — l’Italia della contemporaneità. Con tutte le contraddizioni, ma anche con tutta la sua storia, più o meno controversa. Penso che ci siamo riusciti pienamente». Le critiche? «Ne terremmo conto, ma solo se saranno motivate». Quelle dei curatori precedenti: «Sarebbe meglio che non si pronunciassero».
Perfettamente in linea con la filosofia di Massimiliano Gioni, anche per quello che riguarda la suddivisione molto equilibrata degli spazi (alla maniera appunto delle tante piccole Wunderkammer in cui Gioni ha suddiviso l’Arsenale) «vice versa» offre sette confronti, sette face-to-face, tra vecchie e nuove e generazioni. Due artisti per stanza e sei stanze più un giardino (quello appunto dell’Arsenale), un atlante di viaggio che è in qualche modo un catalogo di sopravvivenza (artistica, ma non solo).
Francesco Arena e Fabio Mauri, Luigi Ghirri e Luca Vitone, Massimo Bartolini e Francesca Grilli, Giulio Paolini e Marco Tirelli, Flavio Favelli e Marcello Maloberti, Gianfranco Baruchello e Elisabetta Benassi, Piero Golia e Sislej Xhafa (a loro è toccato il complicato impegno di misurarsi con il giardino): ognuno di loro ha così giocato a tracciare le traiettorie di quello che sarà, i maestri riconosciuti come i «nuovi» giovani. Ogni spazio (cui si aggiunge idealmente lo spazio eccellente del negozio Olivetti dove sempre Pietromarchi ha curato per il Fai la mostra «Time Lapse») che è appunto capitolo di una storia, quella italiana. Una storia che forse non ha la pretesa di approfondire, ma piuttosto di raccontare con leggerezza temi e pratiche dell’arte italiana.
Ad aprire le danze (o meglio la scena) la riproposta della performance di Fabio Mauri «Ideologia e natura» del 1973: una ragazza vestita da giovane italiana (le fotografie sono firmate da Elisabetta Catalano) che praticamente si mette in scena davanti alle colonne di Francesco Arena dove il legno comprime la terra di (vere) fosse comuni. Un effetto che potrebbe risultare pesantemente tetro ma che, forse per lo spazio (non affastellato come nella precedente edizione), compare quasi con leggerezza. Una leggerezza, al limite della superficialità, che sembra essere il difetto-limite di questa edizione. E non solo del Padiglione Italia.
Il viaggio di Pietromarchi, pesante o leggero che sia, appare come un viaggio complesso, articolato, fatto ad esempio di suoni e di profumi. Come è caleidoscopica, secondo lo stesso curatore, la realtà italiana. Ci sono punti fermi, momenti che restano più impressi: come il viaggio di Luigi Ghirri — un viaggio che al suo tempo era stato mostra e anche libro — che arriva direttamente dal 1984, quando lo stesso Ghirri mise insieme il meglio e il nuovo della fotografia italiana (Basilico, Barbieri, Chiaromonte, Jodice). Idealmente la sua proposta finisce per essere ulteriormente esaltata dalla contrapposizione voluta da Pietromarchi: Luca Vitone e con la sua inusuale «scultura acromatica monolfattiva», quasi un profumo scultura (fatto di tre tipi di rabarbaro, acqua, alcol) che vuole testimoniare — tragedie umane comprese — la terribile modernità che avrebbe voluto avere come simbolo l’Eternit.
In questo catalogo ci sono gli oggetti di tutti i giorni come i piatti con la cupola di San Pietro (che possono andare in lavatrice) che trascrivono le memorie lontane di Flavio Favelli. O personaggi onirici come il barbiere rampante, collocato, quasi citando l’Amarcord di Fellini, da Sislej Xhafa con tanto di rasoio sulla cima dell’albero (e lunga è la fila di visitatori che vogliono farsi radere, ieri è toccato anche a Pietromarchi). Lo stesso albero sotto il quale troneggia la grande scritta «Italia» e dove l’ultima volta avevamo lasciato il povero Belpaese firmato da Pistoletto. E se con i suoi 10 mila mattoni («The Dry Salvages») Elisabetta Benassi ha voluto riassumere tutte le imprese impossibili (un mattone per ogni residuo spaziale ancora in orbita), il segno più forte resta quello di un classico come Giulio Paolini. Con i «Quadri di un’esposizione», l’arte non è più sogno ma una bella realtà.
Stefano Bucci