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 2013  maggio 30 Giovedì calendario

GOMORRA MESSICANA

Quando Diego Enrique Osorno capì di non essere tagliato per scrivere necrologi aveva sul desktop del pc una cartella con settemila articoli. Nato nel 1980 a Monterrey, uno dei buchi neri del Messico, aveva passato gli ultimi dieci anni della sua vita raccontando scioperi, repressioni, insurrezioni, incidenti e narcotraffico. Un buon lavoro, preciso e asettico, ma lui non era soddisfatto. La conta dei morti, delle armi sequestrate, dei chili di marijuana bruciati, dei poliziotti arrestati, tutto questo non era sufficiente a spiegare il suo Paese. L’approccio statistico del giornalismo tradizionale ricordava una vecchia foto, troppo sbiadita per essere reale. Nulla a che vedere con il chiasso delle immagini prodotte dai narco: le bande di assassini avevano cominciato ad arruolare, accanto ai sicari, cameramen e fotografi. Il loro compito era ed è ancora oggi quello di documentare i crimini per poi caricarli su Internet. Primo piano sulla decapitazione, carrellata in avanti sulla raffica di mitra, la violenza vista con gli occhi dei carnefici. Ma le vittime? Chi avrebbe restituito loro la dignità di protagonista?
Osorno abbandonò le pagine dei giornali e cominciò a occupare quelle delle riviste di giornalismo narrativo, soprattutto Gatopardo ed Etiqueta Negra.
Le sue cronache finirono per diventare libri, tradotti e premiati in tutto il mondo. L’ultimo, Z. La guerra dei narcos (La Nuova Frontiera, trad. di Francesca Bianchi, 377 pagine, 15 euro), rende omaggio a Roberto Bolaño, lo scrittore grazie a cui intuì un altro modo di raccontare la realtà. Seguiamo Diego Enrique Osorno sulle strade del narcotraffico per capire, insieme a lui, qualcosa in più sul male, sulle sue dimensioni e cause. Su come sia possibile oggi, in una società sempre più distratta e rumorosa, salvare le storie dall’oblio.
Partiamo dalla devastazione degli ultimi anni. Quali sono in Messico le origini della violenza?
«Tutto è cominciato molto tempo fa, quando la droga è diventata una questione culturale, uno stile di vita tollerato. Il peggio è accaduto di recente, nel 2006, dopo l’arrivo di un presidente (Felipe Calderón) che ha creduto che un problema culturale potesse essere risolto con le pallottole. Il suo governo ha acceso un fiammifero in una stanza piena di polvere da sparo. In quel momento il Messico è passato dalla narcopolitica alla necropolitica. La corruzione, la menzogna e l’impunità sono presenti in entrambi i concetti, solo che la necropolitica è più efficace perché innesca una economia di guerra e un populismo criminale che finiscono con il nascondere altri e più gravi problemi, come la disuguaglianza: c’è un messicano (Carlos Slim) che guadagna 27 milioni di dollari al giorno e ci sono 50 milioni di messicani che non hanno 5 dollari al giorno. La violenza della droga in Messico è terribile, ma il numero di morti per tubercolosi è quasi simile».
Lei sostiene che la necropolitica sia di fatto una economia della morte. Chi ne trae vantaggio?
«Con il termine necropolitica, concetto ripreso dal filosofo camerunense Achille Mbembe, intendo spiegare che così come ci sono uomini politici e uomini d’affari che traggono beneficio dal narcotraffico, ci sono anche politici e imprenditori che diventano più potenti e milionari con la presunta guerra alla droga. A costoro interessa che la guerra continui ad esistere e a fallire perché così possono conservare i propri privilegi. Non è un caso che la guerra alla droga negli Stati Uniti sia un fallimento che dura da oltre 40 anni».
Tra gli attori del narcotraffico abbiamo una organizzazione criminale che sembra provenire da un corpo di militari d’élite addestrati negli Stati Uniti. Chi sono veramente Los Zetas?
«Sono un gruppo nato pochi anni fa, ma già conosciuto come i vecchi cartelli di Sinaloa, Tijuana e Ciudad Juarez. In un certo modo, e suona inquietante, Los Zetas sono narco modernità. Sono riusciti a conquistare il territorio innovando: facendo una operazione più orizzontale che verticale, in cui la figura del capo è meno importante del gruppo. Sono come la Coca Cola: che cosa succede se si rimuove l’amministratore delegato della società? Nulla perché la struttura è già consolidata. Semplicemente, arriverà un nuovo direttore. Los Zetas sono imprenditori armati».
Solo sugli Zetas circolano decine di migliaia di articoli (secondo Google quattro milioni e mezzo), eppure per lei il giornalismo tradizionale non è sufficiente a descrivere il narcotraffico. Quando si è accorto che nella cronaca c’era qualcosa che non andava?
«Quando ho visto dei colleghi discutere il numero delle vittime con la calcolatrice in mano. In Messico abbiamo iniziato a parlare di morti come se fossero un indice della borsa».
Perché pensa che i media siano complici della tragedia nazionale? C’è un capitolo del suo libro in cui descrive i giornalisti come avvoltoi, ma a volte il silenzio è il miglior alleato dei gruppi criminali. Lei stesso lo ha definito «colpevole».
«Il silenzio e il rumore si confondono, sono ugualmente vantaggiosi per i gruppi criminali. Bisogna raccontare storie per stimolare la fantasia politica dei lettori ».
E così arriviamo al giornalismo narrativo. Perché pensa che sia più efficace?
«Stalin ha detto che un milione di morti sono una statistica, ma che un morto è una tragedia. Attraverso una storia ci sono più possibilità di raggiungere il lettore, di commuoverlo, di interessarlo, di spingerlo a capire che cosa davvero stia accadendo».
Roberto Saviano ha detto di se stesso: «Volevo diventare uno scrittore e mi è toccato in sorte di essere un testimone». Lei come si considera?
«Nel mio caso è stato il contrario. Sono stato un testimone per molti anni e mi sono convinto che un giornalista non può assistere a un massacro e limitarsi a raccontarlo in un articolo. Si deve fare coinvolgere fino in fondo anche nella scrittura. Con questo libro sono un testimone che cerca di essere uno scrittore».