Gaia Piccardi, Corriere della Sera 30/5/2013, 30 maggio 2013
DAL NOSTRO INVIATO
PARIGI — Se la vita è una ciliegia, come diceva Jacques Prévert, quella di Raymond Domenech ha il verme. Finalista al Mondiale 2006, affossato da Zidane (la testata a Materazzi, oui...) e dall’Italia di Lippi ai rigori; eliminato all’Europeo 2008 ottenendo la miseria di 1 punto; insolentito pubblicamente da Anelka dopo il fallimento al Mondiale 2010, fine della sua via crucis sulla panchina dei Bleus.
Raymond Domenech è tutto — un allenatore sfortunato, l’eroe negativo di un dramma sportivo che non prevede resurrezione, un capro espiatorio di professione, altro che il Malaussène di Pennac —, tranne che un uomo banale. Nato a Lione da uno spagnolo rifiugiatosi in Francia durante la dittatura di Franco, è stato un attore teatrale, un modesto difensore e un mediocre allenatore, a giudizio dei suoi detrattori. Ma poiché gli stereotipi sono fatti per essere smentiti, dopo una sala d’attesa di due mesi e tre appuntamenti rinviati, quello che emerge dietro un café au lait nei pressi di Port Maillot vestito come Fonzie (o Matteo Renzi), jeans e giubbotto nero, è un 61enne spettinato dalla vita, lucido nelle analisi, generoso nel raccontarsi e tutto sommato, parbleu, affascinante.
I suoi ultimi, devastanti, anni come c.t. della Francia sono ben raccontati in un libro («Tout seul») che avrebbe potuto intitolarsi «Me ne frego», perché è questa la frase («je m’en fous») che Domenech pronuncerà di più, sempre con il sorriso sulle labbra, in due ore di chiacchiere al bistrot: un caso editoriale (200 mila copie vendute per Flammarion) che ha riesumato ricordi e rinfocolato polemiche. «Le è piaciuto? A me è servito come terapia...».
Cosa fa, oggi, Domenech?
«Seguo il calcio per la tv: campionato e nazionale. Mi chiederà: dopo tutto quello che è successo? Sì. In Sudafrica non è finito il mondo: la Francia ha continuato a giocare e io a vivere. Il mercoledì alleno una squadretta di bambini di 10 anni. Senza telecamere, giornalisti, obbligo del risultato. Il primo giorno c’è stata un’invasione di media. Ma, poi, la tranquillità assoluta: puro piacere del gioco. Ho voltato pagina: lasciatemi in pace...».
Tornerà un allenatore vero?
«Non sento la mancanza della mediatizzazione del calcio né della pressione. Ho voglia di campo, semplicemente. È possibile, oggi, in Europa?»
Lo dica lei.
«Purtroppo da noi prima del calcio vengono il business, l’ego dei presidenti, gli agenti dei giocatori, chi li consiglia (spesso male), i loro capricci».
Si era parlato di lei come c.t. del Camerun.
«Mi sarebbe piaciuto. Vorrei partecipare a un altro Mondiale come c.t. Il mestiere di selezionatore è ad altissima intensità ma è frazionato nel tempo rispetto al tecnico di club. Sì, un bel progetto mi piacerebbe… All’Italia ho già detto più volte di no!» (ride).
Sul serio: allenerebbe in Italia?
«Perché no? In serie A, ovunque. Però oggi che ho capito la differenza tra vivere sotto pressione e senza pressione, mi godrei di più il lavoro e l’esistenza».
Cosa le ha insegnato l’esperienza choc del Mondiale 2010 (flop e caso politico)?
«In Sudafrica ho preso coscienza dell’abisso che c’è tra la mia generazione e quella dei giocatori. Ho dovuto gestire il passaggio generazionale del calcio francese, e non sarebbe stato facile per nessuno. C’erano momenti un cui non riuscivo, non potevo, capire. Lo sciopero dei calciatori? Inconcepibile! Non ho saputo adattarmi al loro modo di pensare: lo scarto era netto e incolmabile. E pensare che il giorno prima, quando eravamo sull’orlo dell’abisso e la tensione era palpabile, avevo scherzato con i miei collaboratori: ci manca solo lo sciopero dei tacchetti! Non immaginavo che sarebbe successo veramente…».
Il calcio l’ha cambiata?
«La vita, oltre che il calcio. La morte di mia madre, che mi difese quando sull’Equipe uscì la storia degli insulti di Anelka («Vai a farti in..., brutto figlio di put....» ndr). Quella prima pagina la addolorò. Le cose non erano andate esattamente come le raccontavano, ma sa come siete voi giornalisti: è sempre qualcun altro a fare il titolo… E oggi c’è un grave problema personale che mi ha fatto ricollocare il calcio nella scala dei valori. La vita mi ha messo più volte nel frullatore: ne sono per forza uscito trasformato».
Sembra diverso da come la dipingono, Domenech. Si sente ancora il più Grande Antipatico di Francia?
«Il secondo, semmai: vince a mani basse Sarkozy! Il paradosso è che la gente per strada mi ferma per salutarmi e complimentarsi ancora per la finale di Berlino. Prendo la metro, faccio la spesa, giro indisturbato. È allo stadio, dove la stupidità si nasconde dentro il branco e l’anonimato, che la gente si sente libera di urlare qualsiasi cosa… Chieda a Jacquet, che pure un Mondiale l’ha vinto, se può girare tranquillo per strada in Francia…».
Che idoli aveva da bambino?
«A 8 anni ero raccattapalle all’Olympique Lione. I miei amici cercavano di trascinarmi a chiedere autografi ai giocatori. E poi cosa me ne faccio?, mi domandavo. Degli idoli me ne frego».
Per forza deve sentirsi solo contro tutti per dare il meglio?
«Balle. Adoravo vivere con la squadra da giocatore e adoro farlo da allenatore. Ho scelto uno sport collettivo, non individuale: ricorda?».
Crede nel destino o pensa che le cose succedano per caso?
«Coltivo una forma di fatalismo: le scelte sono mie, poi ciò che la vita mi manda non è mai casuale. Ogni giorno ho mille porte aperte davanti: sta a me decidere quale imboccare. Anche l’astrologia…».
Parliamone. La colpa di Trezeguet era essere scorpione?
«Non ho mai creduto all’astrologia delle riviste o della tv. E non è vero che facevo la formazione con l’oroscopo. Per Trezeguet parlano le statistiche: David era decisivo quando non partiva titolare. Sennò non segnava mai! Mi interessano il carattere, la psicologia. Dell’astrologia spicciola me ne frego».
Quali sono i suoi sentimenti oggi, se pensa all’Italia?
«Lippi è un mio amico, ogni tanto incontro Capello, con Maldini mi confrontavo spesso… Ho ammirazione per i vostri attaccanti: hanno una straordinaria cultura del gol. Ricordo alla Juventus, ai tempi di Vieira e Trezeguet, di aver preso appunti guardando un geniale allenamento del reparto offensivo. Chapeau».
Ha mai rivisto la finale di Berlino?
«Mai. Se la incrocio alla tv, cambio canale o distolgo lo sguardo».
Se potesse rigiocarla...
«La interrompo: che senso ha parlarne? Il passato è passato. Ho fatto tutto ciò che era nelle mie possibilità per vincere il titolo mondiale. Non ho rimpianti».
Ma se Zidane e Materazzi non avessero litigato…
«Fino a pochi minuti dalla fine dominavamo. Avevo pensato di far uscire Zizou per regalargli l’ovazione dello stadio. Chi immaginava la provocazione, la testata, l’espulsione…? Il mio film non andava di certo a finire così».
Zidane le ha mai confidato cosa gli disse Materazzi per provocarlo?
«Mai. Né io gliel’ho chiesto. Ma anche a saperlo, cosa cambierebbe? Ecco perché di quello che ha detto Materazzi a Zidane me ne frego».
Chi riferì all’arbitro della testata?
«Il quarto uomo. La televisione era a bordo campo come esperimento. E voilà: il quarto uomo vede tutto e ci condanna. Capisce, poi, perché sono fatalista?».
La statua della testata davanti al Beaubourg le è piaciuta?
«La considero la pessima trovata di marketing di un sedicente artista che esalta un gesto di violenza: orribile».
La famosa mano di Henry nello spareggio mondiale con l’Irlanda. Nel libro ne accenna appena: perché?
«Perché non la vidi. E nemmeno l’arbitro. Tutto il mondo ne parlò come di uno scandalo ma quello a mio giudizio resta un clamoroso errore arbitrale. Come tanti altri. Punto e basta».
Ha contatti con Anelka?
«No, ma se lo incontrassi gli direi buongiorno. Nessun problema. Me ne frego».
Come gestirebbe Balotelli, se fosse nei panni di Prandelli?
«Balotelli mi ricorda le grandi personalità della mia nazionale. È un cavallo selvaggio, come Ibra: giocatori fantastici ed egoisti, che però per segnare hanno bisogno della squadra. E non so se Mario, che è molto giovane, ha capito quanto dipende dalla squadra per diventare un fuoriclasse… Ma ricordiamoci che i grandissimi, da Platini a Pirlo oggi, non creano mai nessun problema al collettivo».
Chi vince la Confederation Cup?
«Me ne frego».
Chi è l’allenatore più forte? Mourinho? Guardiola?
«Voi giornalisti siete ossessionati da Mourinho, ma l’allenatore incide pochissimo. Al Mondiale 2006 il migliore fu Buffon. Le partite sono decise dai grandi giocatori. I premi, incluso il Pallone d’Oro, sono solo triste show business».
Il miglior giocatore che abbia mai allenato?
«Come Zizou non c’era nessuno».
Meglio Zizou o Platini?
«Impossibile paragonarli».
Come vorrebbe essere ricordato, tra cent’anni, Domenech?
«Come un fattore di divisione. Come quello che è arrivato in finale con merito al Mondiale. Come un pioniere. Come uno che ha fatto discutere la gente e, quindi, l’ha fatta pensare. Ma siccome il passato non si può cambiare, alla fine, mi creda: di come sarò ricordato tra cent’anni, io me ne frego».
Gaia Piccardi