Michael Finkel, National Geographic 29/5/2013, 29 maggio 2013
I PRIMI AUSTRALIANI
Un dito sulla gola e un occhiata verso il mare. È il segnale. I due uomini afferrano le lance fatte a mano con legno di eucalipto e raggiungono la riva camminando a piedi nudi sulla terra rossa. Poi salgono sulla piccola barca di alluminio e via sulle acque tiepide e poco profonde del Mare degli Arafura, all’estremità selvaggia del Territorio del Nord australiano.
Terrence Gaypalwani è in piedi a prua e scruta l’acqua, indicando con la punta della lancia la direzione in cui muoversi. Ha 29 anni ed è a metà della carriera da cacciatore. Al motore c’è Peter Yiliyarr, più di 40 anni, un veterano della caccia. Il litorale è un intrico di radici di mangrovie; il sole è una lampada ardente. Mezz’ora. I due non hanno detto una parola, neppure quando non erano impegnati nella caccia. Gli Yolngu talvolta comunicano solo con i gesti.
A un certo punto Gaypalwani solleva la lancia e drizza la schiena; guardo di lato e vedo una grande ombra nell’acqua. L’ombra affiora e incontra la lancia all’altezza della superficie.
La tartaruga verde, colpita, si immerge di nuovo. È grande quasi come un tavolino da gioco rotondo e probabilmente più vecchia dei due uomini messi insieme. La punta metallica della lancia penetrata nella corazza si stacca dal fusto come previsto. Il fusto finisce in mare – lo recupereranno poi – ma alla punta della lancia è legata una corda che Yiliyarr srotola velocemente. I due uomini hanno cicatrici lunghe e sottili sul torace e sui palmi delle mani. La corda adesso è tutta in acqua, all’estremità c’è una boa bianca grande come un pallone da basket. La boa vola fuori dalla barca e scompare nell’acqua. Il pallone riemerge e la barca gli è subito accanto. Adesso tocca a Yiliyarr che scaglia la sua lancia non appena la tartaruga riappare e ancora una volta quella fa centro. La punta si stacca e un’altra corda entra in gioco. Gaypalwani si allunga sull’acqua per riprendere la prima fune, poi lui e il compagno iniziano a tirare le corde e presto la tartaruga viene trascinata accanto alla barca.
I due si allungano, afferrano una zampa ciascuno, puntano i piedi e piegano la schiena all’indietro. La tartaruga adesso è fuori dall’acqua e scivola dentro la barca facendola sussultare con il suo peso. I due uomini cadono all’indietro.
PER VISITARE MATAMATA, un villaggio sperduto nel bush in cui vivono circa 25 persone, ho dovuto chiedere il permesso della madre di Gaypalwani. Phyllis Batumbil, la matriarca di Matamata, è una donna che dice sempre ciò che pensa, ha una risata così potente da spostarti il cappello ed è capace di sguardi così severi da impaurire anche un cane. A Matamata ci sono due telefoni. Batumbil ne ha uno; il resto del villaggio condivide l’altro.
Ho telefonato e mi ha risposto Batumbil. La donna parla diversi dialetti dello Yolngu Matha, il gruppo linguistico degli Yolngu, e un ottimo inglese. Come molti Yolngu ha un nome inglese e un cognome aborigeno, e preferisce essere chiamata con il secondo. Batumbil è un’artista: dipinge immagini altamente simboliche di pastinache, lucertole e altri animali creando totem su strisce di corteccia e tronchi cavi e usando un pennello fatto con i suoi capelli.
Le ho chiesto il permesso di fermarmi a Matamata per un paio di settimane, specificando che avrei pagato vitto e alloggio. Permesso accordato.
Potevo rendermi utile portando qualcosa? «La cena per 25 persone», mi ha risposto.
HO NOLEGGIATO UN CESSNA e il pilota ha sorvolato il bush con quegli alberi dritti e sottili e radi, come un trapianto di capelli mal riuscito, finché abbiamo raggiunto una vasta radura rettangolare, su un lato della quale c’era una manciata di case. Batumbil era seduta sotto un vecchio albero di mango e intrecciava fibre naturali per farne una borsa, circondata dai suoi cinque cani. Indossava una canottiera nera e un sarong viola, portava occhiali da lettura e aveva le unghie smaltate di rosso. I capelli, una massa di fitti ricci neri, erano raccolti sulla testa con un nastro giallo.
Ho scaricato dall’aereo due borsoni e una dozzina di sacchi pieni di roba da mangiare. La cena per 25 persone è piuttosto ingombrante, ho spiegato. Guarda tutto questo cibo, ha detto. Riesci a immaginare cosa significa procurarne tanto in un giorno usando solo una lancia? E farlo di nuovo l’indomani? Mi sembra quasi impossibile, ho risposto. Gli aborigeni, ha aggiunto lei, lo fanno tutti i giorni da almeno 50 mila anni.
Per 49.800 di quegli anni sono stati padroni del loro continente. Un tempo esistevano circa 250 lingue aborigene diverse, centinaia di dialetti e un numero ancora maggiore di clan e sottogruppi. Ma fra le tribù c’è una profonda comunanza spirituale e culturale. Non considerano il termine aborigeno offensivo e lo usano anche loro. Per migliaia di anni hanno vissuto come cacciatori-raccoglitori divisi in piccoli gruppi nomadi che si spostavano secondo i loro ritmi nelle grandi distese australiane. Poi, il 29 aprile 1779 l’esploratore britannico James Cook approdò con l’Endeavour sulla costa sud-orientale. Nei due secoli successivi è andato in scena l’orrendo spettacolo dell’annientamento di una cultura: massacri, malattie, alcolismo, integrazione forzata, poi la resa.
Oggi in Australia vivono più di 500 mila aborigeni, meno del 3 per cento della popolazione totale. Pochi hanno imparato a eseguire una danza tradizionale o a cacciare con la lancia. Secondo molti antropologi, gli aborigeni praticano la più antica religione del mondo e anche le più antiche forme d’arte, la dot art o pittura a tratteggio o a puntini. La loro società è tra le più durature che il pianeta abbia mai conosciuto. Ma lo stile di vita tradizionale degli aborigeni è quasi scomparso.
Quasi. Sopravvive ancora in alcuni luoghi. Il più importante è la Terra di Arnhem, dove si trovano Matamata e qualche altra decina di comunità collegato tra loro da strade accidentate e sterrate percorribili solo durante la stagione secca.
La Terra di Arnhem non è completamente isolata dal mondo moderno. Ci sono i telefoni satellitari, l’energia solare, le barche d’alluminio e i televisori a schermo piatto con tanto di lettori DVD. Ma è piuttosto impenetrabile, ed è piena di rovi, serpenti, insetti e coccodrilli marini. Quando la nuova generazione preferirà il supermercato alla lancia, allora sarà veramente la fine. Mi chiedevo quali fossero le possibilità di sopravvivenza di questa cultura, così ho chiamato Batumbil.
La donna ha guardato i miei sacchi di cibarie da supermercato e mi ha chiesto se avessi veramente intenzione di condividerle con loro. Qualche secondo dopo la gente si è raccolta intorno al cibo. Avevo portato bistecche, ortaggi, ravioli in scatola e casse di succhi di frutta. Matamata è sostanzialmente una famiglia allargata, composta da figli, nipoti e fratelli di Batumbil. In un baleno la roba è sparita, compresi gli snack che avevo comprato per me. Le buste verdi vuote volteggiavano nell’aria sospinte dalla brezza.
Il mio sguardo doveva essere eloquente: Batumbil mi ha chiesto se avessi fame. Ho ammesso di sì. «Vai con i ragazzi a prendere una tartaruga», ha ordinato.
ECCO COME SI PREPARA una tartaruga marina. Prima di tutto scavate una buca molto grande per il fuoco. Raccogliete la legna e accendetela. Mettete sul fuoco alcune pietre grandi come un pugno poi prendete la tartaruga, riempite i fori lasciati nella corazza dalla punta della lancia con rametti spezzati – impediranno al sangue di uscire durante la cottura – e decapitatela con un’ascia. Conservate la testa; la guancia di tartaruga è deliziosa. Tirate fuori il lungo intestino bianco che somiglia a una manichetta antincendio. Sarà pulito, bollito e mangiato a parte.
Usando due bastoncini come pinze togliete dal fuoco le pietre e infilatele nell’apertura del collo – in questo modo la carne si cuoce anche dall’interno – poi completate la farcitura con foglie appena colte. Facendovi aiutare da qualcuno sollevate la tartaruga, disponetela sul fuoco capovolta e copritela con pezzi di carbone. Cuocetela per una decina di minuti, poi toglietela dal fuoco.
Lasciatela capovolta e usate il vostro coltello per tagliare il piastrone. Tagliate grandi pezzi di carne color avorio e strisce di grasso verde chiaro. Distribuite le porzioni a tutti, date le zampe ai cani. Banchettate.
A MATAMATA IL TRAMONTO è il momento dei moscerini che pungono. Appartengono alla specie Culicoides ornatus. Da ogni veranda provengono rumori di schiaffi e manate a ritmo continuato. A Matamata ci sono 5 case fornite dal governo, rivestite all’esterno di lamiere ondulate per bloccare le termiti e suddivise in tre semplici stanze.
I pasti vengono cucinati sul fuoco all’esterno, anche se in ogni casa c’è un lavello con l’acqua corrente e un frigorifero. Per gli Yolngu tutto è una tela su cui dipingere: i massi, gli alberi, le pareti delle camere da letto, le facciate delle case sono decorati con figure umane e animali disegnate con intricati tratteggi o nello stile dei petroglifi. Tra le case ci sono boschetti di alberi di mango, anacardi e banani. Per fare uno spuntino basta allungare la mano verso un ramo. Anche in un villaggio così piccolo – per attraversarlo a piedi senza fretta si impiegano circa tre minuti – ci sono vari quartieri: la zona degli scapoli, quella delle famiglie con bambini e all’estremità più distante dal mare il complesso di Batumbil.
La donna divide la camera con la zia materna ultranovantenne, mentre le altre stanze sono occupate rispettivamente da un figlio maschio e da un nipote, che ha un bambino piccolo. Cinque generazioni in un’unica casa. Sul letto di Batumbil c’è una morbida coperta con il ritratto di Elvis Presley. Batumbil adora Elvis. In genere a Matamata vanno tutti d’accordo, ma si tratta pur sempre di una famiglia. Ogni volta che Batumbil menziona qualcuno aggiunge al nome l’aggettivo pigro. Una volta due nipoti di Batumbil hanno litigato così tanto da ferirsi a coltellate.
Le ore più afose del giorno trascorrono languidamente: si sbrigano le faccende domestiche – costruire le lance, fare il bucato – oppure si va a pesca con la lancia se la marea lo permette. Gli uomini catturano anche pastinache, ricciole del Pacifico e un mammifero marino grande come un tricheco, il dugongo. La creatività di Batumbil si risveglia solo verso l’ora dei moscerini; spesso dipinge o lavora ai ferri fino a notte e va a letto molto tardi. «La testa non funziona al mattino», spiega. Batumbil è nata nel 1956 in una comunità fondata da missionari metodisti sull’isola di Elcho, poco distante dalla costa settentrionale della Terra di Arnhem. Suo padre aveva otto mogli. Subito dopo la sua nascita, come vuole l’usanza Yolngu, la piccola è stata promessa a un uomo che poi ha sposato a 15 anni. Il marito aveva vent’anni di più. È morto nel 2000.
Nel 1976 l’approvazione dell’Aboriginal Land Rights Act per il Territorio del Nord ha sancito la restituzione della Terra di Arnhem, un’area di oltre 90 mila chilometri quadrati, ai suoi proprietari originali. All’epoca alcune comunità di aborigeni erano falcidiate dall’alcolismo e dalle malattie. Lo sono ancora oggi. Un tratto caratteristico dello stile di vita dei cacciatori-raccoglitori è il consumo del cibo, che viene suddiviso e divorato subito dopo essere stato procurato. Un’abitudine sensata, visto che nel bush il cibo si deteriora rapidamente.
La maggior parte delle persone nel mondo ha avuto 10 mila anni per adattarsi gradualmente ai ritmi di una società agricola sedentaria, in cui la sopravvivenza è legata a fattori quali la pazienza, la capacità di programmazione e la conservazione. Agli aborigeni è stato chiesto, assurdamente, di cambiare vita quasi da un giorno all’altro. Il consumo sregolato sommato alla disponibilità illimitata di prodotti come l’alcol si sono tradotti in un disastro. Lo stesso è accaduto con gli zuccheri raffinati; l’obesità e il diabete sono molto diffusi tra gli aborigeni. Anche il tabacco. L’inalazione della benzina è ormai un problema così grave che in alcune aree in cui vivono gli aborigeni si vende solo un tipo speciale di combustibile poco aromatico chiamato Opal che non dà assuefazione.
Nel paese di poche centinaia di abitanti sull’isola di Elcho dove Batumbil e il marito hanno vissuto – lui era un pittore, lei faceva la sarta – era difficile non cadere nel tunnel dell’alcol e della violenza. Non era un buon posto dove mettere su famiglia. Batumbil e il marito sono giunti alla conclusione che l’unico modo per essere felici fosse vivere dei prodotti della terra in un luogo tranquillo e isolato. Così si sono trasferiti nel bush. «Abbiamo deciso di tornare a casa», mi ha spiegato. Secondo gli operatori sanitari locali che ho incontrato, la sua è stata una scelta saggia. Probabilmente le ha salvato la vita. Rispetto agli aborigeni che risiedono in città, quelli che vivono nei territori remoti mangiano cibo più sano, sono più longevi e sono meno esposti alla violenza.
Il centro urbano più grande del Territorio del Nord è Darwin. Lì un fratello di Batumbil è stato pugnalato a morte durante una rissa a gennaio del 2012. Il suo corpo è stato portato a Matamata. Dopo il trasferimento nel bush, Batumbil ha avuto due figli (il maggiore è Gaypalwani) e una figlia, che ha avuto tre figli maschi e poi è morta per una malattia cardiaca. I tre ragazzi, il più grande dei quali è poco più che ventenne, vivono tutti a Matamata. Nel villaggio non si va a scuola in modo continuativo. L’insegnante è Batumbil, che ha studiato per diventare maestra in un college di Darwin. Durante il mio soggiorno, però, non ci sono state lezioni né mi è mai capitato di vedere un libro. La scuola del bush, invece, funziona in modo perfetto. Gaypalwani e sua moglie hanno due gemelli di nove anni. I bambini giocano con le loro mini-lance e qualche volta accompagnano il padre in barca, osservandolo mentre pesca. Ogni giorno provano i complicati passi della danza yolngu mentre i genitori tengono il ritmo battendo le mani. I matrimoni combinati e la poligamia, sostiene Batumbil, non si usano più. Oggi per trovare una compagna si segue un sistema più moderno. «Te ne vai in giro come una formica fin quando non sei soddisfatto. A quel punto costruisci il tuo formicaio».
A Matamata l’alcol è proibito. È una regola imposta anzitutto da Batumbil, ma è anche una norma di legge. La Northern Territory Emergency Response del 2007 è stata presentata come la risposta al presunto aumento dei casi di abusi su minori nelle comunità aborigene. In seguito a questa iniziativa controversa e accusata di razzismo, nelle aree abitate dagli aborigeni sono stati inviati più poliziotti e sono state imposte, tra l’altro, leggi severe sul consumo di alcolici.
Gli aborigeni con cui ne ho parlato hanno ammesso con riluttanza che il provvedimento ha risolto in parte alcuni problemi, anche se molti australiani vi si sono opposti con veemenza sostenendo che le nuove regole rappresentavano una palese violazione delle libertà personali.
In un’area poco pattugliata come Matamata sarebbe facile ignorare la legge, ma Batumbil è per la tolleranza zero nei confronti dell’alcol e io non ne ho visto neppure una goccia. Come molti altri adulti, però, anche lei fuma come una ciminiera. Usa una lunga pipa di legno ricavata da un ramo scavato – al villaggio le pipe le costruisce Djutu, un cugino di Batumbil – e tabacco Log Cabin acquistato in un negozio. Due prodotti del mondo esterno influenzano in modo determinante la qualità della vita a Matamata: il tabacco e la benzina. Senza combustibile non si possono usare le barche a motore, non si possono catturare le tartarughe e si soffre la fame. Quando non c’è tabacco è ancora peggio. Mentre ero lì ho visto con i miei occhi la reazione di Batumbil alla fine delle scorte: ha spaccato la sua pipa preferita, ha raschiato la resina incrostata all’interno e l’ha fumata con un’altra pipa.
I soldi per comprare il tabacco, la benzina e altri prodotti essenziali arrivano da diverse fonti. Gli Yolngu vengono di tanto in tanto impiegati per svolgere lavori manuali; nel periodo in cui mi trovavo lì un gruppo di uomini è stato chiamato per issare una cisterna d’acqua sopra una torre. Per lavori di questo tipo ricevono dallo Stato una paga che arriva al massimo all’equivalente di 214 euro alla settimana. Molti non lavorano ma guadagnano qualcosa comunque, avendo diritto come tutti gli australiani al sussidio statale per i cittadini con reddito basso. Altre comunità aborigene ricavano grandi profitti dai diritti di sfruttamento concessi alle aziende minerarie. Nella Terra di Arnhem ci sono importanti giacimenti di bauxite, la principale fonte per la produzione di alluminio. Nonostante le offerte vantaggiose Batumbil non ha mai voluto che le società minerarie toccassero la sua terra. «Dovranno spararmi e passare sul mio cadavere prima di scavare qui», dice.
I dipinti su corteccia che Batumbil esegue con pigmenti artigianali ricavati dall’argilla bianca vengono venduti all’equivalente di 1.150 euro l’uno; le sue borse di corda decorate con piume d’uccello ne costano circa 380. La donna sogna di avere una connessione internet satellitare in modo da aprire un sito web e vendere on line i suoi lavori, evitando le commissioni alla galleria d’arte. Qualcuno degli uomini guadagna denaro con la compravendita di una sostanza in polvere marrone chiaro, la kava, che si estrae dalla radice di una pianta e, sciolta nell’acqua, produce una bevanda non alcolica ma sedativa, usata per rilassarsi la sera.
A Matamata c’è un’automobile, una Land Cruiser bianca arrugginita su cui tutti vogliono fare un giro, probabilmente perché contiene l’unico condizionatore d’aria del villaggio. Qui la temperatura può arrivare a 38° C quasi tutti i mesi dell’anno. Più volte al giorno un bel po’ di persone si accalcano dentro l’auto per raggiungere la costa, distante solo poche centinaia di metri, e controllare se il livello della marea è quello giusto per la pesca della tartaruga. Per raggiungere il negozio più vicino e decentemente fornito, che si trova nella città mineraria di Nhulunbuy, si guida per quattro ore e ad alta velocità su strade strette e sabbiose.
A Matamata ci sono due stagioni: quella delle piogge, che solitamente va da dicembre a marzo, e quella secca, che caratterizza tutto il resto dell’anno. Quando piove le strade si allagano, ma si può sempre prendere una barca da qualche parte sulla costa e con mezza giornata di viaggio si arriva in città. Una volta la settimana atterra l’aereo che porta qui un operatore sanitario. Quando riparte diretto alle altre comunità aborigene capita spesso che un paio di persone occupino i posti vuoti pagando una somma modesta per andare a trovare amici e parenti. Agli Yolngu piace muoversi; a Matamata la popolazione varia ogni giorno. Un nipote di Batumbil è salito sull’aereo portandosi dietro il suo cucciolo e un televisore, spiegando: «Così sto seduto e mi rilasso», ma non ha minimamente pensato di mettersi le scarpe.
BATUMBIL NON SOPPORTA I MOSCERINI, Come chiunque del resto, e non si fa scrupoli a ucciderli. Eppure crede di avere un rapporto con loro. Li chiama "nonnine". «Volevo fare un sonnellino», mi ha detto una volta, «ma c’erano tutte le mie nonnine». Scherzava, sorrideva dicendolo, ma nelle sue parole cera un fondo di serietà. I moscerini la tormentano è vero, ma sono parte della sua terra e dunque hanno anche loro un significato, un’anima e uno scopo. Quel giorno, per esempio, il loro obiettivo era impedirle di dormire per farle capire che la vita non è facile.
Secondo la mitologia aborigena, una volta la superficie della Terra era una distesa indifferenziata di fango o argilla. Poi dalle profondità del suolo e dal cielo emersero delle creature ancestrali che assunsero la forma di animali, piante o esseri umani e spostandosi da un luogo all’altro compirono grandi gesti di creazione, modellando il fango in fiumi, colline, isole, caverne. Tutto ciò avvenne in un’epoca chiamata Dreamtime (il tempo del sogno). Il percorso intrapreso da ciascuna creatura, il paesaggio a cui diede forma prima di rintanarsi di nuovo sotto terra, rappresenta un Canto. Le creature ancestrali diedero origine anche tutti gli esseri viventi, inclusi gli uomini. E donarono la lingua, la conoscenza, i rituali e la fede. Ogni aborigeno ha un suo Dreaming, l’antenato da cui discende, sia esso un serpente, una tartaruga o una pianta di igname. Uno dei Dreaming della famiglia di Batumbil è il dingo, e questo spiega perché le piaccia essere circondata dai cani. È fondamentale, spiega Batumbil, conoscere il Canto del proprio Dreaming in modo da seguire la sua stessa via, parlare la sua lingua, conoscere la sua musica.
Questa spiritualità totalizzante non viene espressa in modo plateale. La gente a Matamata non se ne va in giro pregando o cantando. Anzi, sembra proprio che la vita quotidiana non preveda rituali di tipo religioso, anche se non mancano le superstizioni. Si crede, per esempio, che camminare da soli ci renda vulnerabili alla stregoneria. Di conseguenza a Matamata è normale farsi accompagnare persino per andare in bagno (i bagni sono costruzioni a parte). Nel cimitero di Matamata, dove le tombe sono sommerse di fiori di plastica, l’unico simbolo religioso è una croce con le parole "I Am the Way" (Io sono la via), retaggio dei missionari metodisti che arrivarono nella Terra di Arnhem all’inizio del Novecento. Le credenze aborigene sono visibili in tutta la loro forza in due occasioni: le cerimonie d’iniziazione dei bambini e i funerali.
Alcuni abitanti di Matamata mi hanno invitato a partecipare al funerale di un anziano Yolngu molto rispettato, su una spiaggia vicino alla cittadina di Yirrkala. Dopo essersi coperti il corpo e il viso di argilla bianca, gli uomini cominciano a camminare sulla sabbia con le lance cerimoniali per poi fermarsi davanti a una tenda di tela, montata per l’occasione, dentro la quale giace il corpo. I più anziani provvedono alla musica con il battito ritmico delle bacchette, le voci cantilenanti e il tono basso e continuo del didgeridoo. Poi, come le creature ancestrali del Dreamtime, i danzatori sembrano trasformarsi davanti ai miei occhi, si contorcono, allungano il collo, battono i piedi e agitano le lance. Simili a un’unica creatura con tante gambe, si muovono tutti insieme tra nugoli di sabbia e rivoli di sudore. Le danze, che imitano i movimenti di un animale o un evento naturale, sono brevi e intense. C’è la danza del gabbiano bianco, quella del polpo, del vento del nord, del cacatua. Alcune sono eseguite solo dalle donne. Il funerale si protrae per dieci giorni affinché l’anima parta per il suo viaggio con il commiato più grandioso possibile. Ho chiesto a un paio di persone di descrivermi l’aldilà: «Non sappiamo cosa succede dopo la morte», hanno risposto.
GLI YOLNGU, MI SPIEGA BATUMBIL, SONO il popolo del fuoco. Quando si spostano nel loro territorio appiccano spesso degli incendi. E permettono ai bambini, anche ai più piccoli, di farlo. È una pratica che serve per eliminare gli alberi caduti e l’erba alta, in modo da muoversi più facilmente nel bush e favorire il rinnovamento della vegetazione.
Guardate i loro occhi quando si accende un fuoco: c’è qualcosa di più profondo dell’attenzione per la foresta. Avvicinate una fiamma alla punta di una foglia di palma. Siamo in piena stagione secca, la foglia esplode. In pochi minuti tutto l’albero prende fuoco, sembra un grande braciere, poi le fiamme si spostano sull’albero vicino e si spargono sul terreno. L’aria diventa arancione, il calore sembra l’abbraccio soffocante di un orso, il bush si riempie di fumo e scricchiolii mentre le fiamme si dirigono in fretta là dove le spinge il vento, se vi trovate sulla loro strada scappate!
Niente può fermarlo adesso, il fuoco farà ciò che vuole. Ritornate a piedi a Matamata e al mattino scrutate l’orizzonte. C’è una nube di fumo bassa lì dove il fuoco sta ancora bruciando.
UNO YOLNGU IMPIEGA DAI 30 AI 40 ANNI per assimilare tutta la cultura aborigena, per diventare «un’enciclopedia vivente», come dice Batumbil. La donna teme che presto non ci saranno più "enciclopedie" yolngu; molte comunità aborigene in tutta l’Australia hanno già seppellito l’ultima. La caccia con il boomerang praticata per 10 mila anni da alcune tribù – mai però dagli Yolngu – non esiste quasi più. «Sono preoccupata per i giovani», dice Batumbil. Quando conosco Marvin Ganyin mi convinco che le sue preoccupazioni sono eccessive. Ganyin ha 23 anni; vive con la moglie nella camera accanto a quella di Batumbil. Sua madre era la figlia di Batumbil, quella che è morta. Anche suo padre è morto. Ha un figlio di 2 anni.
All’inizio Ganyin mi lascia un po’ perplesso. La prima cosa che mi fa vedere è il video, caricato sul cellulare, di una rissa in cui era stato coinvolto durante una gita all’isola di Elcho. Le sue più grandi passioni, mi spiega, sono i combattimenti e il football australiano. Mi mostra le cicatrici sulle nocche che si è procurato facendo a pugni. Sostiene di non capire a cosa servano i libri. «Leggere? Che te ne fai di un libro quando hai fame? Lo mangi?».
Poi, un giorno in cui alcuni degli uomini più anziani devono andare in città a fare rifornimento di benzina, Ganyin mi dà un colpetto sulla spalla, mi passa una lancia e mi fa cenno di seguirlo. Ci inoltriamo nel busti, dappertutto si vedono formicai grandi come tumuli funerari. Ganyin si ferma sotto un albero e lo scuote, facendo cadere un po’ di mele selvatiche di un bel rosso acceso con la buccia corrugata come un peperoncino. «Mangiale, così puoi camminare a lungo», mi dice.
Qualsiasi creatura del bush australiano, a quanto pare, vuole avvelenarti. Ci sono serpenti bruni reali, rospi delle canne, ragni vedova e taipan. Anche fare il bagno in mare è pericoloso, pieno com’è di cubomeduse, pastinache a pois, polpi dagli anelli blu e decine di specie di squali. E non mancano i coccodrilli marini, che possono raggiungere i 6 metri di lunghezza. Nelle due settimane in cui sono rimasto nel bush i coccodrilli hanno sbranato una bambina di 7 anni e un bambino di 9. Ho espresso il mio dispiacere a Batumbil, ma lei è rimasta impassibile.
Sono cose che succedono.
Io e Ganyin raggiungiamo una collina. È un luogo sacro, afferma. Qui crescono gli alberi per i didgeridoo. Il giovane colpisce leggermente il tronco di un eucalipto. È cavo. Gli Yolngu sostengono che il didgeridoo sia stato inventato nella Terra di Arnhem, loro lo chiamano yidaki. Ganyin è un suonatore esperto, il migliore che mi sia capitato di sentire a Matamata.
Uscendo dal bush ci troviamo davanti un tratto di spiaggia incontaminata. Sulla sabbia non c’è neanche un’impronta. Proseguiamo fino a una piccola gettata naturale di rocce nere piene di ostriche. Ganyin ne apre alcune e le mangiamo dalla conchiglia. Poi Ganyin scaglia la sua lancia e infilza un granchio enorme. Ci arrampichiamo verso la foresta di mangrovie. Ganyin spezza una radice, affonda un dito nel morbido legno marrone e tira fuori un vermone bianco, lungo 30 centimetri. Lo solleva, lo schiaccia per far uscire una sostanza molle marrone e me lo offre. «Mangialo», mi dice con una luce negli occhi. Obbedisco. Non male, sa di calamari un po’ salati.
«Andiamo via prima che ci sentano i dingo», dice. Così torniamo indietro. Sulla via del ritorno mi mostra un fiore, spiegandomi che la sua fioritura indica l’inizio della stagione della caccia alle pastinache. I suoi eroi, mi racconta, sono Bruce Lee e Muhammad Ali. Ribadisce che non potrebbe mai vivere in una città. «Troppo noioso. Si mangia male». Secondo lui non c’è niente di meglio al mondo che procurarsi il cibo con le proprie mani. «Anche quando avrò i capelli bianchi, sarò sempre un cacciatore». Sta già insegnando al figlio a cacciare. Insiste che imparerà tutte le usanze yolngu, diventerà un’enciclopedia. E al suo funerale la gente danzerà per 10 giorni.
Arrivati a Matamata cuciniamo il granchio sul fuoco e prepariamo il tè. Il tramonto tinge di rosa il cielo; scacciamo i moscerini. Ganyin si toglie le schegge e i frammenti di conchiglia che gli sono rimasti attaccati alle piante dei piedi aiutandosi con la punta di un paio di forbici. La Land Cruiser rientra con il suo carico di taniche di metallo piene di benzina. Domani andremo al mare a catturare altre tartarughe. Ganyin prende il suo didgeridoo. È decorato solo con delle strisce di nastro adesivo colorato.
Prende una sedia di plastica, la gira su un lato e ci si siede davanti con le gambe incrociate. Appoggia l’estremità dello strumento alla sedia, chiude gli occhi e gonfia le guance. Il suono si diffonde nell’aria, modulato dal riverbero creato dalla sedia di plastica. Cammino per Matamata, in cielo si accendono le stelle e la musica di Ganyin riempie la notte.