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 2013  maggio 28 Martedì calendario

LA GUERRA DEL GRANO


Tempi duri per il grano duro. Quello del pane di Altamura, per capirci. Ma anche quello che viene utilizzato per la produzione di quasi tutta la pasta che troviamo sul mercato. Il fatto è che il grano duro cresce soprattutto nell’area del Mediterraneo, Italia compresa. Ma ora una serie di problemi, a cominciare dal clima, potrebbero mettere a rischio la sua produzione.
«Il cambiamento climatico in atto nel Mediterraneo, e soprattutto nella sua fascia orientale in cui rientra anche parte dell’Italia, sta modificando il regime delle precipitazioni», spiega Domenico Pignone, dell’Istituto di genetica vegetale del Cnr di Bari. Non guardiamo a questa primavera in cui le piogge sono abbondanti, ma teniamo in considerazione gli ultimi 25 anni e vedremo che le precipitazioni tendono a concentrarsi nel periodo invernale, lasciando le altre stagioni più a secco. «Siccome il frumento duro normalmente non viene irrigato, quanto se ne produce dipende dal regime delle piogge. Quindi, avere periodi più lunghi con precipitazioni scarse porta come conseguenza effetti negativi sulla produttività».
Il Mediterraneo diventa quindi sempre più inospitale per la coltivazione del frumento. Eppure, questa specie si è evoluta sulle sponde di questo mare e qui è stata coltivata per 10mila anni. «Gli antichi romani andavano a prendere il frumento nell’Africa del Nord – ricorda Pignone – poi, le coltivazioni si spostarono raggiungendo anche l’Italia attestandosi soprattutto nel Sud del Paese». Ora però le cose stanno cambiando. Già oggi il frumento duro delle regioni meridionali ha una produttività di 25 quintali per ettaro, mentre se ci spostiamo a nord, ad esempio in Emilia Romagna, dove c’è più acqua, la produttività sale a 40-50 quintali per ettaro. E l’industria se ne è accorta: «La Barilla – prosegue Pignone – ha già dato vita a varietà adatte a climi presenti nel Centro-Nord del Paese». Se spostiamo lo sguardo un po’ in avanti e analizziamo cosa potrebbe accadere tra cinquant’anni, scopriamo che le zone buone per la coltivazione del frumento duro si potrebbero spostare sempre più a Nord, lasciando definitivamente il nostro Paese.
«L’Italia, un po’ come è avvenuto con la seta, da Paese produttore potrebbe diventare totalmente importatore, con pesanti ricadute economiche», prosegue Pignone. Già oggi, secondo Coldiretti, la produzione italiana di frumento duro è di 4,2 tonnellate e, nonostante un incremento del 12% del raccolto destinato alla pasta nel 2012, l’Italia resta dipendente dall’estero per circa il 40 per cento.
«È necessario mettere a frutto strategie di miglioramento genetico tali da permettere lo sviluppo di un prodotto di qualità, in grado di dare produzioni sostenibili nell’ambito dei nuovi scenari», conclude Pignone. Ed è proprio di questo che si discute in questi giorni al convegno «Genetics and Breedings of Durum Wheat», organizzato dall’Accademia nazionale delle scienze con il Dipartimento di scienze bio-agroalimentari (Disba) del Cnr, Enea, Cra e Cimmyt, Icarda, Fao.
Quali strade si possono intraprendere per affrontare questa sfida? «La prima strada è quella di cercare di usare le risorse genetiche presenti. Si pensi che il grano è una delle prime piante coltivate dall’uomo insieme alle lenticchie. La sua coltivazione si è sparsa dove si è sparsa l’umanità. Le piante si sono adattate ad ambienti diversi da quelli dove hanno avuto origine. Alcune, ad esempio, sono più adatte alla siccità. Il Cnr di Bari conserva circa 27.000 campioni di varietà di frumento, a fronte di un centinaio di varietà oggi usate. Usando queste risorse si possono selezionare varietà con le caratteristiche che ci interessano». La seconda strada è quella del miglioramento della qualità, con una maggiore attenzione anche alle caratteristiche nutrizionali: «Nel frumento duro, ad esempio, sono più presenti i carotenoidi che sono quelli che danno il colore giallo alla semola, ma che hanno anche un effetto benefico per la salute perché sono degli antiossidanti».
Un cambiamento che farebbe bene anche al mercato, visto che le importazioni di pasta stanno crescendo: «Oggi – conclude Pignone – si calcola che ci siano circa 300 milioni di cinesi che vivono secondo uno standard europeo e che possono assorbire i prodotti alimentari italiani, come la pasta di grano duro».