Pietro Greco, l’Unità 29/5/2013, 29 maggio 2013
IL «FRACKING» UNA TECNICA CONTROVERSA
Il boom c’è già stato. Nel 2000 lo shale gas, il gas estratto da rocce porose, costituiva il 2% della produzione di gas naturale degli Stati Uniti d’America. Alla fine del 2012 la percentuale era già salita al 40%. E nel prossimo futuro è destinata a crescere ancora, consentendo agli Usa di tagliare tre diversi traguardi: scalzare la Russia quale massimo produttore mondiale di gas naturale, raggiungere l’indipendenza energetica e dare un formidabile contributo ad abbassare i costi mondiali dell’energia e, dunque, a rilanciare l’economia planetaria. Per questo molti parlano di una vera e propria shale revolution.
Quella dello shale gas, dicono i più ottimisti, è un’autentica svolta storica, una rivoluzione appunto, perché modificherà gli equilibri energetici, economici e geopolitici del pianeta. E avrà anche un positivo impatto ecologico. Il presidente degli Stati Uniti, Barack H. Obama, punta su questo «gas naturale non convenzionale», come la fonte energetica principale nel periodo di transizione verso le fonti rinnovabili e carbon free, che non producono gas serra.
La rivoluzione dello shale gas è, soprattutto, una rivoluzione tecnologica. Grazie alle nuove capacità di horizontal drilling (estrazione orizzontale) e di multi-stage hydraulic fracturing (fatturazione idraulica multi-stadio delle rocce), più noto come fracking, è possibile estrarre a costi relativamente bassi il gas naturale (in buona sostanza, il metano) adsorbito nelle argille e nelle rocce porose. Le due tecniche possono essere utilizzate sia in pozzi del tutto nuovi, sia (a minor costo) in vecchi pozzi.
Gli Stati Uniti hanno enormi riserve di gas (e di petrolio) contenuto in questo tipo di rocce. E sono i più avanzati dal punto di vista tecnologico. Cosicché stanno dominando il mercato e contano di poterlo dominare nei prossimi anni, superando sia la Russia sia i paesi del Medio Oriente. Con vantaggi economici e geopolitici evidenti. In realtà, sostiene Obama, il metano è, tra gli idrocarburi, quello che a parità di energia liberata produce meno gas serra. Cosicché, in attesa delle fonti rinnovabili, lo shale gas sta già consentendo e consentirà in futuro di diminuire le emissioni di carbonio, sostituendo il petrolio e il carbone. Poiché anche la Cina ha notevoli riserve di gas naturale non convenzionale, molti sperano che anche la grande potenza asiatica inizi a utilizzarlo.
Il prossimo futuro sarà, dunque, dello shale gas e di quel suo cugino, il tight oil, il petrolio estratto dagli scisti bituminosi, ovvero da rocce intriso di idrocarburi liquidi? Non tutti ne sono convinti. Non tutti, in ogni caso, la auspicano, la shale revolution. A non essere convinti ci sono i tecnici, interessati, di Gazprom, il monopolista russo che rischia di perdere quote di mercato. Ma tra gli scettici ci sono esperti americani e indipendenti, come David Hughes, ricercatore del Post Carbon Institute di Santa Rosa, in California, che su «Science», la rivista dell’associazione degli scienziati americani, sostiene che: a) estrarre shale gas costa molto, più del gas naturale e alla lunga la sua produzione è insostenibile; b) le riserve di shale gas sono sovrastimate, perché ogni pozzo, dopo pochi anni di sfruttamento, tende a esaurirsi e il suo boom è momentaneo. Insomma, secondo Hughes, la shale revolution sarebbe un fuoco di paglia.
Ma, al di là dei costi e delle reali riserve, ci sono altri due motivi: il primo riguarda la tecnologia. Il fracking, in particolare, fratturando le rocce e iniettando acqua sarebbe in grado, secondo alcuni esperti di provocare dei sismi. La United States Geological Survey si è chiesta di recente se l’incremento, in molte zone degli Stati Uniti, di terremoti di bassa intensità (magnitudo non superiore a 3) sia dovuta alla shale revolution. Un anno fa, il 19 giugno 2012, il dibattito è sbarcato nel Senato, con un’audizione sulla «potenziale sismicità indotta da tecnologie energetiche». L’allarme, sostengono i più prudenti, potrebbe essere eccessivo. Sottolinea Charles F. Fogarty – professore di geologia economica presso la Colorado School of Mines di Golden – negli Usa sono attivi 35.000 pozzi di shale gas estratto mediante tecnica della fatturazione idraulica e uno solo è sospettato di aver provocato un sisma. C’è, tuttavia, un pozzo di shale gas che ha certamente provocato un sisma: quello di Blackpool in Inghilterra. Il problema va tenuto sotto controllo. Inoltre, è vero che il gas naturale produce meno gas serra rispetto a petrolio e carbone. Ma resta un idrocarburo. E quando lo bruci si trasforma in acqua e anidride carbonica. È vero che se tu utilizzi il gas naturale al posto del petrolio e del carbone diminuisci le emissioni di gas serra. Ma la diminuzione è limitata. E alla lunga non consente quell’abbattimento del 80% e più di gas serra che solo la sostituzione pressoché totale dei combustibili fossili – solidi (carbone), liquidi (petrolio) o gassosi (metano) – con fonti rinnovabili può garantire.
La rivoluzione dello shale gas potrebbe scontrarsi con la prevenzione della più grande minaccia che incombe sull’umanità: il cambiamento del clima.