Stefano Bucci, Corriere della Sera 29/05/2013, 29 maggio 2013
RISORGE PER PRADA LA KUNSTHALLE DEL 1969. CELANE: TRASMETTE LA PERCEZIONE DI UN’EPOCA —
Proprio come nel 1969, alla Kunsthalle di Berna. A cominciare dal cumulo di sterco, all’epoca regalo indispettito di un artista escluso e qui omaggio generoso di un collezionista riconoscente (nessuna indicazione sul nome), che ieri per pochi attimi ha fatto la comparsa sulla soglia di Ca’ Corner. Ulteriore segnale lanciato da «When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013», mostra che letteralmente riproduce in scala 1:1 quella curata nel 1969 da Harald Szeemann. A firmare un remake che vuole anche essere un «readymade alla Duchamp», Germano Celant con Thomas Demand e Rem Koolhaas per la Fondazione Prada di Venezia (questo pomeriggio l’inaugurazione ufficiale con cocktail a inviti, apertura al pubblico dal 1° giugno al 3 novembre, www.fondazioneprada.org). Sorpreso del regalo? «No. Direi, piuttosto, divertito. D’altra parte era già successo a Berna. Ora la ricostruzione è davvero perfetta». C’è da credergli: Celant nel 1969 aveva tenuto lo speech d’apertura, collaborando con Szeemann nella scelta degli artisti italiani.
Mentre il regalo viene rapidamente rimosso, il supercuratore (sei le mostre aperte in contemporanea alla Biennale che portano la sua firma) racconta un’operazione che intreccia passato e presente. E smorza le recentissime polemiche scoppiate alla comparsa della maxi-statua gonfiabile dell’atleta disabile (nuda e incinta) collocata proprio di fronte alla chiesa di San Giorgio e firmata da Marc Quinn (l’esposizione per la Fondazione Cini è una di quelle curate appunto da Celant): «Chi l’ha criticata, non ha pensato che si tratta di una persona vera, del ritratto di una donna con una sua storia e non di un semplice esercizio di stile. In queste situazioni ci riveliamo davvero bacchettoni. Certo c’è chi avrebbe preferito più discrezione».
Celant (a fare da elemento dissonante nel suo consueto total black look c’è stavolta un anello d’argento con una grande pietra verde) si destreggia fra la corda scultura di Barry Flanagan e le cinture di Richard Serra, tra le «Confluenze» di Pino Pascali e il «Cotone bagnato» di Giovanni Anselmo. Rimandando al mittente ogni possibile dubbio di un’operazione nostalgia: «Non abbiamo avuto la pretesa di ricostruire la storia, ma piuttosto la percezione di un’epoca, il sentimento anche artistico che molti di noi hanno idealizzato, senza averlo potuto vivere. Queste opere sono state create per la Kunsthalle del 1969: aver ricostruito filologicamente quella mostra ha ridato loro l’esatta dimensione, l’esatto valore, l’esatta forza». E a lei che è uno dei pochi, invece, ad averla davvero vissuta in diretta? «Mi ha dato una grande emozione, perché le ho riviste come allora, tutte insieme. E l’emozione è quello che vorrei far provare a tutti i visitatori, a chi c’era e a chi quel momento lo ha solo immaginato».
L’allestimento di Koolhaas sul grande scalone che porta al piano nobile riproduce le dimensioni della piccola scala della Kunsthalle. Le opere (i sacchi di juta Kounellis, l’igloo di vetro di Merz) scandiscono gli spazi come allora. A fare la differenza: il pavimento di seminato veneziano lucidissimo e un piccolo esercito (ma molto elegante) di ragazzi e ragazze a cui è affidata l’incolumità di queste opere «troppo fisiche» per lasciare indifferenti (anche gli odori fanno la loro parte, partendo dalla margarina usata da Beuys): «A Berna chi passava accanto a questa scultura di Boetti («Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969», ndr) si sentiva in dovere di spostare qualche sasso. Oggi non è più possibile. Il significato, anche economico, delle opere è totalmente cambiato».
Il poco che manca ci sarà in fotografia (la collocazione sarà comunque la stessa). E al terzo piano di Ca’ Corner, a cui si potrà però accedere per motivi di sicurezza soltanto in gruppi di otto, prenderà corpo il remake di una sezione dell’esposizione all’epoca collocata fuori della Kunstahalle (con lavori di Buthe, Calzolari, Prini, Ruppersberg). Intanto l’emozione sembra aver toccato anche il curatore. Effetto memoria? O non sarà la stanchezza? Non le sembra di esagerare con tutte queste mostre veneziane? La risposta di Celant arriva decisa: «Assolutamente no. Il mio lavoro è un lavoro di squadra». E quanto contano oggi, nell’arte, i mecenati? «Moltissimo. Ma il loro ruolo non è più quello, passivo, che avevano nel Rinascimento. Oggi, prima di tutto, devono portare idee. E non solo soldi».
Stefano Bucci