Pierluigi Panza, Corriere della Sera 29/05/2013, 29 maggio 2013
MEMORIA —
La cinquantacinquesima Biennale d’arte di Venezia, che si apre sabato, è una Wunderkammer fatta di tante mostre nella mostra. Il solo «Palazzo Enciclopedico», l’esposizione principale curata da Massimiliano Gioni, pare esibisca circa quattromilacinquecento «oggetti» (tra Arsenale e Padiglione centrale ai Giardini) realizzati da centocinquantotto artisti di trentasette Paesi. A essa si aggiungono le esposizioni nei padiglioni di ottantotto Paesi, tra i quali dieci nuovi; tra questi i due Stati più piccoli del mondo: la Santa Sede e le nove isole Tuvalu, un arcipelago nell’Oceano Pacifico che rischia di sprofondare. Senza contare le rassegne in città, l’arte dell’età della finanza mostra a Venezia il suo aspetto più ricco e bulimico. Si attendono quattrocentomila visitatori.
PALAZZO ENCICLOPEDICO — All’inizio del Seicento, una disciplina accendeva le menti degli eruditi. Era l’arte della memoria, ovvero la creazione di sistemi di immagini atti a ricordare tutte le conoscenze del mondo. Giordano Bruno realizzò una ruota che serviva a ricordare ogni cosa e Raimondo Lullo una scala. Enciclopedismo e scienza mandarono apparentemente in soffitta questa disciplina che l’internazionale Max Gioni da Busto Arsizio ha ritirato fuori dal baule dei ricordi partendo dall’autodidatta italo-americano Marino Auriti che, nel 1955, progettò un Palazzo Enciclopedico: un museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare il sapere dell’umanità. Auriti progettò un edificio di centotrentasei piani, che doveva occupare sedici isolati di Washington. «L’impresa non ebbe seguito — racconta Gioni che ne espone il plastico all’inizio del percorso all’Arsenale — ma il sogno di una conoscenza totalizzante attraversa la storia e accumuna personaggi eccentrici». Lui ha recuperato i lavori di alcuni di questi eccentrici e li ha esposti. Ne è uscita una bella mostra-museo, molto ossessivo-compulsiva, dove la ripetizione — che è il miglior metodo di memoria — investe ogni opera. Ciascun artista, infatti, duplica dieci, cento, mille volte un segno, un oggetto, un video… tanto che si ritrovano qui alcuni temi del binomio arte-follia.
«L’utopia di voler conservare tutto manifesta il rapporto che un collezionista ha con le cose», afferma il presidente della Biennale, Paolo Baratta. Ed è un’utopia che, in Max Gioni, sfocia nella teosofia di Steiner e Jung (il «Libro rosso» di Jung è sotto la volta del Padiglione centrale) e nell’arte ispirata ai mandala. «Le opere di Hilma af Klint danno visibilità all’invisibile – racconta Gioni – quelle di Augustin Lesage sono cartografie occulte, quelle di Aleister Crowley sono immagini simboliche dell’universo. Ci sono un disegno di uno sciamano delle Isole Salomone, le mitologie cinesi di Guo Fengyi per fermare l’epidemia della Sars, i video di Artur Zmijewski che invita a dipingere ad occhi chiusi». Poi ci sono il feticismo, il riutilizzo di «Comizi d’amore» di Pasolini dell’americana Sharon Hayes, le tassonomie di Okhai Ojeikere, le ripetizioni geometriche di Walter De Maria, gli uomini straziati di Pavel Althamer, la maschera funeraria di Breton realizzata da René Iché, le pietre sovrascritte del critico Roger Callois, la monotona ripetizione nei video di Bruce Nauman e le «seriali» tavole di fumetti di Robert Crumb, che fanno il doppio con le decine di casette in cartone realizzate da tale Peter Fritz, un impiegato di un’assicurazione austriaca. Cattelan, in visita ieri, confessa che gli sarebbe piaciuto «acquistarle, ma non era possibile».
A far da contraltare all’entusiasmo, diversi sostengono che quella di Gioni non sia una mostra «d’arte contemporanea». In effetti, molti artisti esposti sono defunti, e molte delle opere appartengono al Novecento. Per Vittorio Sgarbi questa è «una Biennale degli scomparsi»; perplessa anche la critica Beatrice Buscaroli. Strano a dirsi, ma di Internet — il maggior serbatoio di memoria contemporanea — non c’è traccia.
PADIGLIONI NAZIONALI — «Dal ’98 abbiamo optato anche per una grande mostra, una nostra "Documenta", a fianco dei tradizionali padiglioni nazionali, che sono sempre in aumento», afferma Baratta. In aumento, ma non servono più per manifestare una possibile o presunta identità espressiva del Paese che li propone. L’arte contemporanea ha scelto di essere portabandiera del globalismo, dell’universo apolide e del politically correct. Dunque, i padiglioni nazionali sono solo un modo per partecipare all’affascinante «Lagoon show», come ha definito il quotidiano «Financial Times» i giorni di esposizione della Biennale.
Nel padiglione della Germania c’è solo un tedesco su quattro. Gli altri sono Ai Weiwei (bloccato in patria ma rappresentato a Venezia dalla madre), Santu Mofokeng e Dayanita Singh, «che hanno stretti rapporti con la Germania», dice la curatrice Susanne Gaensheimer. In quello di Israele si «lavora sul concetto di nazionalità e mondo globale» incalza Gilad Ratman; in quello della Gran Bretagna si ironizza sullo yacht del russo Abramovich e in quello della Russia piovono gettoni d’oro dal cielo, mentre negli spazi della Santa Sede le opere sono appoggiate per terra. Se poi passiamo a quello del Cile, troviamo un giardino che si solleva. Uno dei curatori dell’Angola (tra i Paesi new entry con Bahamas, Bahrain, Costa d’Avorio, Kosovo, Kuwait, Maldive, Paraguay) è l’italiano Stefano Rabolli Pansera. Sottolinea con orgoglio il presidente Baratta: «alcuni nuovi Paesi dopo essere stati ammessi ufficialmente all’Onu o all’Ocse vengono qui per ricevere un riconoscimento culturale».
Ma quale identità nazionale! «Non siamo più ai tempi delle Expo», fanno notare in molti. Sì, è vero… Poi uno ci pensa e gli viene un dubbio: ma a Milano non stiamo preparando proprio l’Expo 2015?
Pierluigi Panza