Paola Jacobbi, Vanity Fair 29/5/2013, 29 maggio 2013
ME LO HA INSEGNATO LUI: NIENTE REGALI
[Intervista a Eleonora Andreatta] –
Ehi, dico a voi, lettrici che ogni tanto vi lamentate del fatto che ci occupiamo troppo di donne famose solo perché sono belle o recitano nei film. Ehi, dico a voi, piagnucolose sempre a ribadire che alla fine le donne il soffitto di cristallo non lo sfondano mai, che il vero potere è ancora roba da maschi e noi siamo escluse.
Ecco un caso, il primo in effetti nella storia della Rai, di una che ce l’ha fatta, negli alti livelli della produzione di entertainment. Dall’autunno scorso il direttore di Rai Fiction, una struttura con un budget intorno ai 200 milioni di euro annui, è una donna nata
a Bologna nel 1964. Si chiama Eleonora Andreatta, ma tutti la chiamano Tinny, un nome un po’ da cartone animato che, in realtà, appartiene al personaggio di una principessa indiana, protagonista della pièce teatrale Oleandri rossi dello scrittore Rabindranath Tagore. Il nome venne scelto dai suoi genitori durante un viaggio in India, dopo aver visto a teatro detto spettacolo. Il padre di Tinny era Beniamino Andreatta, insigne economista, politico democristiano dalla faccia e dalla carriera pulite, più volte ministro, molto stimato anche dagli avversari.
Insomma, questa Tinny dev’essere una raccomandata, direte voi. In realtà, al di là delle origini, la signora ha fama di donna competente e sgobbona, arrivata dove è arrivata con forze proprie. Mi spiazza subito, quando ci incontriamo nel suo ufficio di viale Mazzini. Arriva accompagnata da Alessandra, la sua addetta stampa, e – dato che non ci siamo mai viste prima – si presenta fingendosi l’altra. Scoprirò poi che si è laureata in Lettere con una tesi su Pirandello e il tema del doppio, e penso che non c’è niente da fare: in fondo, restiamo sempre fedeli a quel che eravamo a 20 anni, anche se arriviamo molto in alto.
Facciamo subito fuori il tema «nepotismo». Come ha combattuto le inevitabili frecciate?
«Ricordo che quando mi offrirono il mio primo contratto di consulenza in Rai, mio padre mi mise in guardia. Io sottovalutai il suo avvertimento, ma aveva ragione lui: ci sono stati momenti in cui ho sofferto parecchio per questo. Oggi penso che la mia storia professionale parli da sola. Chi vuol credermi creda».
Non ha fatto in tempo a liberarsi delle malignità sul fatto di essere «figlia di» che sono arrivati quelli che la accusano di essere «amica di». L’attuale presidente del Consiglio Enrico Letta è stato braccio destro di suo padre.
«Per fortuna la mia nomina è avvenuta mesi prima della nascita di questo governo».
Come è successo?
«Luigi Gubitosi (direttore generale della Rai da luglio, ndr) aprì una casella di posta ad hoc e chiese a tutti di mandare opinioni e proposte via email e io, insieme ad altri colleghi, ho risposto. Poi, un giorno in pieno agosto, ero a Ponza e ho ricevuto una telefonata in cui chiedeva di incontrarmi. La mattina dopo ho preso il traghetto, sono venuta a Roma, ci siamo parlati e me ne sono tornata in vacanza. In serata, ho ricevuto un’altra telefonata in cui mi chiedeva di rivederlo».
Pare strano, in una Rai dove le poltrone sono sempre state frutto di assegnazioni politiche, molto tramate e calcolate.
«Guardi che la Rai sta cambiando. Per quanto la mia nomina sembri eccezionale perché non c’era mai stata una donna in una posizione simile, in realtà è solo uno dei molti segnali di cambiamento dell’azienda e quindi, spero, del Paese».
Più potere ai secchioni come lei?
«Più potere a chi ha un’etica del lavoro. Dopo gli studi ho lavorato per la Academy, la casa di distribuzione indipendente fondata da Manfredi e Vania Traxler: da loro ho imparato molto, ma soprattutto che non esistono lavori umili e trascurabili. Ricordo che se si arrivava in un cinema e mancavano i cartelloni, la signora Traxler si toglieva le scarpe, saliva su una sedia, martello in mano, e li attaccava lei».
Subisce pressioni per far lavorare questo o quel produttore più o meno amico di questo o quel politico?
«Ignoro queste dinamiche. Il mio punto di riferimento è il pubblico. Sono convinta che la Rai, in quanto servizio pubblico, debba avere un forte senso di responsabilità nel raccontare storie. Attraverso le nostre storie noi intratteniamo, ma trasmettiamo anche valori. E più siamo in grado di essere innovativi e intelligenti, più quello che trasmettiamo è incisivo e duraturo».
Il pubblico le dà ragione. Da Montalbano a Una grande famiglia, da Don Matteo al rivitalizzato Medico in famiglia, tutti progetti che lei seguiva anche quando non era ancora direttore, i vostri ascolti sono un successo. Ma non ci credo che nessuno abbia mai cercato di imporle un’attrice, magari amante di Tizio o Caio.
«Davvero, mai successo. Conoscendomi, sanno che un certo tipo di pressione su di me è controproducente. Posso sembrare anche antipatica e rigida, ma io sono così. Sono figlia di mio padre, a cui ho visto restituire ogni regalo che riceveva».
Suo padre è mancato nel 2007, dopo lunghi anni di coma vegetativo in seguito all’infarto che lo colpì durante una seduta in Parlamento nel ‘99. Un’esperienza così dolorosa per la vostra famiglia le ha ridotto il senso di fiducia nella vita?
«Mi ha fortificato. Io ho una grande speranza nella vita, sempre. Ho ereditato da mia nonna materna Paola lo spirito positivo. Ha 100 anni ed è sempre di buonumore, ha voglia di ridere e partecipare alla vita familiare».
Un ricordo di suo padre?
«Noi non ci siamo mai trasferiti a Roma, siamo sempre rimasti a Bologna, e lui faceva il pendolare. Quando era qui per lavoro e io ero bambina, capitava molto di rado che venissi a trovarlo. Ma mi piaceva da pazzi perché voleva dire andare
al ristorante, cosa che a Bologna non facevamo mai, quindi per me era una festa. Solo che lui lavorava ben oltre i soliti orari, e allora io lo aspettavo seduta su una sedia fino anche alle dieci di sera e poi, finalmente, al ristorante! Ho imparato da lui, comunque, a lavorare fino a tardi».
Non si è mai sposata, non ha figli. Un sacrificio per la carriera?
«Non un sacrificio consapevole. E forse nemmeno un sacrificio, solo la conseguenza della scelta di dare il massimo, spinta dalla mia passione per questo lavoro. A molte donne capita di riuscire a tenere insieme famiglia e professione, a me semplicemente non è successo. E poi ho avuto storie importanti ma probabilmente non ho trovato l’amore vero. Il lavoro non c’entra».
È vero che nel tempo libero lei va a ballare il tango?
«Sempre meno, purtroppo. Comunque, sì: da cinque anni, vado a ballare appena posso. Mi porto le scarpe ovunque, anche nei viaggi di lavoro e in vacanza. Ho ballato a Los Angeles, a New York, persino ad Hanoi. È bello il tango, si incontrano persone inaspettate, ed è un grande livellatore sociale ed estetico. Non conta se sei bello o brutto, o che cosa c’è scritto sul tuo biglietto da visita. Conta solo come balli».
E lei come balla?
«Diciamo che sono bravina».
Guarda mai le serie Tv straniere? Quando le capita di pensare: accidenti, questa avrei voluto produrla io?
«Mi piacciono molto certe serie del Nord Europa, come The Killing. L’inglese Downton Abbey, grande saga intelligente in costume: qualcosa del genere prima o poi la faremo anche noi. E poi trovo strepitoso Girls...».
La fermo, mi sta nominando tutte serie di nicchia, di cui è legittimo parlare nei salotti culturali. Non ha qualche passione pop?
«Star Trek. Fin da ragazzina, grazie anche ai miei due fratelli maschi che erano appassionati. Sono una fan scatenata, come lo è anche mia sorella più piccola».
La facevo un tipo da Sex And the City.
«Lo so a memoria, posso recitarlo come quelli che cantano alle proiezioni del Rocky Horror Picture Show. E, all’ultima puntata, piango. Contenta della confessione?».