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 2013  maggio 29 Mercoledì calendario

CHE RABBIA VEDERLO SOFFRIRE COSì

[Intervista a Stefano Andreotti] –
«Non ci ha mai proibito niente. Soffriva da sempre di emicranie e odiava il fumo, diceva che gli faceva venire mal di testa. Noi figli fumavamo tantissimo, abbiamo iniziato molto presto anche se poi abbiamo smesso. Bene, quando avevo quindici anni papà ci comprava le sigarette: voleva metterci in condizione di imparare a scegliere».

Stefano andreotti, 60 anni, è il terzogenito di Giulio. Dei figli di Andreotti (Marilena, 66 anni, ex moglie di un diplomatico, oggi in pensione a Torino; Lamberto, 62, Ceo del colosso farmaceutico Bristol-Myers Squibb a New York; Serena, 58, redattore dell’Enciclopedia Treccani e sposata con il giornalista Rai Marco Ravaglioli) è l’unico a rompere il riserbo all’indomani
della morte del capostipite, a 94 anni, il 6 maggio. Mi riceve nel suo ufficio di responsabile della sede romana di Siemens Italia. I capelli neri ricordano quelli di Giulio. Così pure l’educazione e i modi, una gentilezza al limite dell’affettazione. E anche il sorriso ironico.
Mi riceve per raccontare la sua verità su un uomo che, prima di essere il controverso protagonista della storia italiana – leader della Democrazia Cristiana, 7 volte presidente del Consiglio, 24 volte ministro, negli anni Novanta accusato di concorso esterno in associazione mafiosa,
assolto in Cassazione per i fatti successivi al 1980 ma non più perseguibile per quelli antecedenti –, era suo padre. Questa non è una testimonianza storica ma la voce di un figlio, la sua difesa appassionata della memoria di un genitore.

Andreotti in Italia è un cognome pesante. Come ha vissuto da figlio di?
«Nel modo più normale possibile. Con qualche vantaggio ma anche qualche rottura di scatole: da ragazzo, a chi mi chiedeva se ero parente, rispondevo di no».
Che padre era Giulio Andreotti?
«Aveva abitudini molto precise, e orari stressanti. Si alzava prestissimo, usciva alle sei e mezzo, qualche volta tornava a pranzo, rincasava la sera non prima delle nove. Lavorava tutti i sabati e tutte le domeniche mattina, anche a Natale, Capodanno e Pasqua. Quindi la sua presenza, in termini di ore, era scarsa. Ma, in termini qualitativi, ci ha riservato un’attenzione assoluta».
Per esempio?
«Se tornava prima che dormissimo – subito dopo Carosello scattava il coprifuoco –
era a nostra disposizione. Ci gratificava per i successi scolastici, con lui si poteva parlare di tutto, e ci ha sempre lasciato decidere che cosa fare delle nostre vite».
Ragazze comprese?
«Ragazze comprese, casa nostra era sempre aperta agli amici. Forse mia sorella Marilena, la primogenita, ha avuto qualche restrizione in più. Ma quella severa in casa era la mamma, una donna forte che si occupava della quotidianità. Papà da quel punto di vista era un disastro. Una volta provò a cucinare le frittelle e fece una confusione assoluta. La mattina,
prima di vestirsi, diceva a mia madre che impegni aveva quel giorno, e lei – che fosse una cerimonia o un funerale – preparava i vestiti giusti. Ci seguiva nei compiti e, da quella brava professoressa di Lettere che era stata, ci faceva sgobbare».
Scuole religiose?
«No, pubbliche. Mio padre voleva che avessimo un’educazione laica, anche se aveva contatti con tante istituzioni religiose. In particolare, il convento delle Suore benedettine di Priscilla, sopra le catacombe. Lì si sono sposate le mie sorelle, lì facevamo catechismo».
E le vacanze?
«A San Felice Circeo, proprio nel convento delle Benedettine di Priscilla. Papà non ha mai amato il mare, gli dava fastidio il sole, sempre per i suoi mal di testa; per questo aveva la pelle del corpo color avorio. Invece gli piaceva la montagna. Affittavamo casa in Alto Adige, oppure stavamo a Cortina in un collegio femminile di suore».
Il rischio che vi faceste preti, o diventaste mangiapreti, era concreto.
«Abbiamo ereditato da papà la fede religiosa, anche se non grande come la sua, e il collocamento politico: abbiamo tutti votato Democrazia Cristiana, finché c’è stata. Ma questo sistema di valori non ci è mai stato imposto».
Mai avuto paura di deluderlo?
«È senz’altro successo, per esempio quando mi sono separato. Però in quella circostanza, come sempre, ha saputo starmi vicino in maniera discreta. La nostra famiglia è sempre stata unita anche grazie alla tradizione, continuata fino a pochi anni fa, di andare a mangiare ogni sabato e domenica a casa dei nostri genitori. Mia madre ci teneva moltissimo: cucinava antipasto, primo, secondo, dolce. Con i nipoti (Girolamo, 40 anni, artista, figlio di Marilena; Giulio, 27, avvocato, figlio di Stefano; Giulia, 32, architetto, e Paolo, 28, avvocato, figli di Serena, ndr) papà era oltremodo generoso: se venivano ai pranzi, gli dava un gettone di presenza».
Mai stata gelosa, sua madre?
«Non credo. Non ho mai sentito tra loro mezzo litigio, al massimo uno sguardo torvo un Natale in cui mio padre arrivò dall’Argentina un minuto prima della cena. Anche quando uscì quella sua foto a braccetto con Anna Magnani, e ci furono alcune insinuazioni, la considerammo un’invenzione dei giornali. Del resto, papà era sottosegretario di De Gasperi con la delega sul cinema. Parlo di quando il cinema italiano ancora si poteva definire tale. Non come oggi, e mi riferisco a qualcosa che ha riguardato mio padre».
Al Divo di Sorrentino?
«Appunto. Quel film parte da un’idea preconcetta, dell’uomo pubblico e di quello privato, ma mio padre era molto diverso. E l’Andreotti privato, almeno quello, io lo posso testimoniare. Perfino papà, che non era mai diretto, dopo la proiezione disse che era stata “una vera
mascalzonata”».
Una mascalzonata anche i processi per concorso esterno in associazione mafiosa?
«Stava per scoppiare Tangentopoli, si voleva spazzare via un’intera classe politica. Ma mio padre non aveva mai maneggiato denaro pubblico: dovevano incastrarlo in un altro modo. Qualche mese prima che i pentiti parlassero, Gerardo Chiaromonte, politico comunista, lo chiamò per avvisarlo della trappola che gli stavano tendendo. Che tragedia: mia madre ha sofferto di depressione e ancora oggi ne porta il segno. A 92 anni, soffre di una malattia degenerativa. Non si è neppure resa conto della scomparsa di papà».
Suo padre invece sembrò reagire alle accuse, almeno pubblicamente, con freddezza, quasi con cinismo.
«In realtà soffrì moltissimo. Lo trovavo il sabato mattina sulla poltrona a dormire – lui che non dormiva mai – imbottito di psicofarmaci per stare tranquillo. La fede l’ha aiutato: diceva che era una prova da superare per quello che aveva avuto, doveva scontare qualche peccato».
Ma se è stata davvvero una trappola, chi gliel’ha preparata?
«Alcuni fanno politica ancora oggi. Papà preferiva rimuovere. Serena e io lo spronavamo a reagire: senza ottenere nulla».
Scusi, però: se l’hanno potuto attaccare è stato a causa di rapporti stretti con persone in odore di mafia, come Salvo Lima. Suo padre era consapevole di aver commesso errori?
«Se tante persone non le avesse frequentate, con il senno del poi sarebbe stato meglio. Detto questo, mio padre non ha mai espresso un giudizio negativo su Salvo Lima, nemmeno dopo la fine che ha fatto (fu ucciso in un agguato nel ’92 a Palermo, ndr). Tutti danno per scontato che Lima avesse rapporti con il mondo della criminalità organizzata: se li avesse io non lo so, e mi sembra ancora da accertare».
Tra i giudizi pesanti espressi su suo padre, fanno particolare effetto quelli scritti da Aldo Moro nei suoi diari del sequestro.
«Normale che un uomo, in quelle condizioni, abbia pensato: che cosa faccio, che cosa dico per salvare la mia vita? Tra mio padre e Moro potevano esserci state divergenze, ma i rapporti erano stati ottimi. Appena si seppe che Moro era stato sequestrato, chiamai papà: era sconvolto. Chi arrivò a ipotizzare che dietro quel rapimento ci potesse essere Andreotti non sa di che cosa parla. A noi figli, papà disse chiaramente che al posto di Moro ci poteva essere lui. Secondo lui, avevano scelto Moro solo perché abitava in Via Fani, una posizione che garantiva una via di fuga più agevole».
Nel 2010, in una puntata del programma La storia siamo noi dedicata all’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli – nel ‘79, quando era commissario liquidatore della Banca privata italiana, per mano di un killer pagato dal proprietario Michele Sindona – suo padre lo definì «una persona che se l’andava cercando». Considerati i rapporti di Giulio Andreotti con Sindona – l’aveva etichettato «il salvatore della lira» – la frase è particolarmente grave. Tanto che il figlio di Ambrosoli, Umberto, ha preferito uscire dall’aula del Consiglio regionale della Lombardia quando si è osservato un minuto di silenzio per la scomparsa di suo padre. Come giudica questo episodio?
«È stata una frase oltremodo infelice, che mio padre però ha subito rettificato, e che soprattutto ha pronunciato quando non era ormai lucido. Fino ai novant’anni, papà è stato benissimo. Dopo, purtroppo, la sua mente non è stata più la stessa. Gli ultimi mesi, in particolare, sono stati davvero duri. Che Umberto Ambrosoli ce l’abbia con lui è più che comprensibile. Se io sono arrabbiato per quello che è successo a papà, figurarsi lui, che suo padre lo ha visto ammazzato».