Marco Ferrando e Leonardo Maisano, Il Sole 24 Ore 28/5/2013, 28 maggio 2013
FIAT STRINGE CON LE BANCHE PER CHRYSLER
Per ora sono solo sensazioni. Ma bastano (e avanzano) a far correre il titolo Fiat, che ieri ha indossato per il secondo giorno consecutivo la maglia rosa di Piazza affari: dopo il +4,2% di venerdì, il titolo principe del Lingotto ieri ha chiuso con un balzo del 4,43%, sull’impressione che il negoziato con Veba sia in dirittura d’arrivo (e con esso la fusione tra Fiat e Chrysler, con conseguente quotazione del gruppo a Wall Street).
Di nuovo, in realtà, non c’è molto. Di vero, solo le stime del Wall Street Journal, che sabato ha dato nuovo risalto alla vicenda e ipotizzato in 20 miliardi il valore complessivo della fusione, e l’attivismo delle banche d’affari, che continuano a spingere gli acquisti sui titoli del Lingotto (ieri anche Exor ha messo a segno un rialzo del 3,87%) e intanto a trattare con Sergio Marchionne sulle coperture.
Sì, perché l’ad di Fiat sta lavorando contemporaneamente su due tavoli. Da un lato, c’è la trattativa con il Veba per acquistare il 41,5% di Chrysler che fa ancora capo al fondo assistenziale: in attesa che la Corte del Delaware si pronunci sulla prima tranche del 3,32% opzionata dal Lingotto (la prossima udienza è attesa a settimane), venditori e acquirenti stanno trattando per un eventuale accordo sull’intero pacchetto, per il quale le posizioni di partenza sono molto distanti, visto che Fiat sarebbe disponibile a pagare 1,8 miliardi di dollari e l’azionista americano ne vuole più del doppio.
Secondo diversi addetti ai lavori questa trattativa è alle battute decisive, e proprio per questo si è acceso l’interesse del mercato su Fiat. In ogni caso, chiusa questa partita, per Marchionne resterebbe quella che sta giocando sull’altro tavolo: qui di fronte si trova non il sindacato ma le banche finanziatrici di Chrysler, e al centro del negoziato i 2,9 miliardi di dollari di linee sottoscritte dalla casa americana per ripagare il governo americano, ma anche i 3,2 miliardi di bond sul mercato sempre a marchio Chrysler; in caso di fusione, entrambi gli strumenti andrebbero rinegoziati, perché nel primo caso c’è da togliere il tetto (500 milioni) per il trasferimento di liquidità da Detroit verso Torino, nel secondo invece vanno ridiscussi alcuni covenant restrittivi per la proprietà di Chrysler. A quanto si apprende, le banche – tra le altre ci sarebbero Goldman Sachs, Bank of America e Deutsche Bank – hanno già manifestato la propria disponibilità a smontare e rimontare tutto, ma alzando il prezzo, e proprio questo sarebbe l’oggetto del contendere su cui è impegnato Marchionne, che ieri è rientrato a Torino.
Intanto, a Milano – dove la Consob ieri per la seconda seduta consecutiva ha monitorato da vicino gli scambi sul titolo – si è fatto notare un report di Intermonte, che ha alzato il rating su Fiat da neutral a speculative buy, alzando il target price da 5 a 6,40 euro. Dietro al giudizio, la convinzione che si stiano stringendo i tempi della fusione, che resta uno dei driver più significativi per il titolo del Lingotto; in particolare, la valutazione di Intermonte incluso il 100% di Chrysler indica un fair value di 6,4 euro per azione, da cui si spiega il target price.
Qualche novità potrebbe arrivare in settimana, magari dopodomani quando Sergio Marchionne parteciperà all’assemblea degli azionisti della holding Exor. Il giorno dopo, dovrebbe svolgersi invece l’incontro con il ministro allo Sviluppo economico, Flavio Zanonato, con cui l’ad del Lingotto ha avuto un colloquio telefonico nei giorni scorsi.
Marco Ferrando
IL LINGOTTO E QUELLA LUNGA CODA PER LA CITY –
LONDRA. Dal nostro corrispondente
A cominciare è stata l’americana Aon, a finire la britannica Wpp. Il 2012 non è stato un anno felice per il Cancelliere dello Scacchiere britannico George Osborne, accusato dal Fondo monetario internazionale di aver fallito la strategia economica, troppo inclinata sul fronte del risanamento. Il 2013 comincia a dargli moderatamente ragione con il Fondo che rientra dalle critiche più severe e il Pil che torna a dar segni di vita. Eppure già nel 2012 si poteva scorgere nelle reazioni delle corporations alle politiche del governo inglese la via privilegiata da Londra per tornare allo sviluppo: l’abbattimento delle imposte sulle imprese. Incisivo abbastanza da convincere molti a muovere nella City il proprio quartier generale. La decisione dei giorni scorsi della Fiat non è dunque unica, anticipata, com’è stata, da tanti, assai più radicali, precedenti.
Aon è stato il primo gruppo di S&P 500 a cercare il domicilio fiscale a Londra in seguito alla liberalizzazione delle cosiddette Cfc rules, ovvero l’imposizione sulle Controlled Foreign Companies. «A cominciare - spiega Giorga Maffini ricercatrice al Centro tassazione sulle imprese della Said business school di Oxford - fu il governo Brown nel 2009. Quell’esecutivo abbandonò l’imposta sui profitti mondiali rimpatriati delle imprese controllate. Adeguandosi al trend dell’Ue, Londra accettò la logica territoriale, eliminando la tassazione sul trasferimento degli utili nel Regno Unito. Anzi, fino ad allora, l’erario britannico cercava di applicare l’imposta anche se gli utili non erano rimpatriati, ma risultavano parcheggiati all’estero con scopi di elusione fiscale. L’aliquota era del 28%, ovvero quella marginale della corporate tax».
Aliquota marginale allora, perché un anno dopo toccò ai conservatori di David Cameron imprimere la vera svolta: il sistematico abbattimento della tassa per le imprese che garantisce il 10% del gettito complessivo. In soli tre anni è crollata dal 28 al 23%, in marcia verso il 20%, traguardo che sarà tagliato nel 2015 facendo di Londra il centro fiscalmente più competitivo - sotto questo specifico aspetto, non in assoluto - nel G20. Mossa che ha l’ambizione primaria di attrarre investitori esteri.
Dumping fiscale? Forse, ma è la risposta quasi obbligata al 12,5% di corporate tax irlandese, Paese che condivide con Londra il beneficio supremo della lingua inglese e pertanto è concorrente più temibile di altri. Un quadro che fece esprimere, nel 2012, a Chris Morgan capo del tax policy di Kpmg un pensiero lapidario: «Fino a un anno fa non avrei mai consigliato a un cliente di piazzare una holding nel Regno Unito. Oggi, questo Paese, è in cima alla lista». Dal 2013 ancora di più.
È entrata in vigore qualche settimana fa l’imposta sul patent box, ovvero sulla produzione che nasce da brevetti registrati nel Regno Unito. Dal 28% l’aliquota è precipitata al 10%. «A mio avviso - continua Giorgia Maffini - è la mossa più significativa. L’Olanda ha una soglia del 5%, ma Londra ha un valore aggiunto imparagonabile». Anche la Francia ha cercato di muoversi su una linea del genere. «Il contesto fiscale francese - continua la ricercatrice di Oxford - è più penalizzante, la tassa sui brevetti mira a tamponare il rischio di fuga oltre la Manica».
Il pacchetto corporate tax made in Britain si completa con le misure per le Pmi. Sulle prime 300mila sterline di reddito tassabile le piccole e medie imprese godono già di un’aliquota marginale al 20 per cento. «Molto più significativa - insiste Giorgia Maffini - è la annual investment allowance introdotta nel 2008. Consente di dedurre interamente dal reddito, ogni anno, macchinari industriali fino a 50mila sterline di valore. I conservatori hanno capito che così si neutralizza l’impatto della tassazione sull’investimento e da quest’anno hanno innalzato la soglia: gli investimenti in macchinari sono immediatamente deducibili fino a 250mila sterline l’anno. Una misura che Londra ha voluto introdurre per bilanciare gli scarsi ammortamenti che consente a differenza di Paesi come l’Italia». Se fosse confermata sul medio periodo aumenterebbe del 7% gli investimenti, in base ai calcoli elaborati dalla Said business school di Oxford.
Proiezioni in attesa di risultati tutti da vedere. Quelli già visti sono, invece, i numeri della migrazione. Di Aon a Wpp abbiamo detto, marcia a ritroso, nel secondo caso, con il ceo Martin Sorrell esplicito nel confessare che la sua fuga da Londra dipendeva dalle tasse, così come il suo ritorno a Londra, annunciato nel dicembre scorso, è stato motivato dalla mutata strategia fiscale dello Scacchiere. Esempi che fanno scuola: almeno venti multinazionali secondo calcoli di Ernst & Young dell’ottobre scorso stanno preparandosi per muovere in Gran Bretagna creando qualche migliaio di posti di lavoro ad alta remunerazione e centinaia di milioni di extra gettito.
Leonardo Maisano