Giuseppe Oddo, Il Sole 24 Ore 28/5/2013, 28 maggio 2013
SVIZZERA, L’APPEAL DEL FISCO LEGGERO
Una volta dall’Italia arrivavano solo capitali. Ora in Svizzera traslocano anche le piccole e medie aziende. Per sfuggire a un fisco sempre più opprimente e a un sistema-Paese sempre meno competitivo trasferiscono la sede in Canton Ticino. Il movimento migratorio ha subito un’accelerazione con le politiche fiscali restrittive del governo Monti. Tra Chiasso e Lugano è un brulicare di attività commerciali e manifatturiere – tessili, meccaniche, farmaceutiche, chimiche, elettroniche, energetiche – di origine italiana . Il Comune di Stabio, 4.370 anime, è stato rinominato la
fashion valley. Vi si sono insediati i marchi della moda: Armani, Gucci, Zegna; le statunitensi Timberland, North Face. Inutile affannarsi a cercare dati ufficiali. Il paese elvetico non tradisce mai il suo proverbiale senso della riservatezza. Al dipartimento economico cantonale di Bellinzona riferiscono che, dal 1997 al 2012, grazie al programma «Copernico» si sono insediate in Ticino 241 aziende, di cui 113 di nazionalità italiana. Ma «Copernico», con i suoi finanziamenti agevolati, è solo una delle vie d’ingresso. Altre aziende preferiscono attraversare il confine con passo più felpato, affidandosi a uno studio legale o a società di consulenza come la Swiss valor advisory, una fiduciaria di Chiasso da poco associata alla Compagnia delle Opere, costituita da un italiano, Gianluca Marano, che ha portato qui una trentina di imprese tra cui il gruppo Habitare, 350 milioni di vendite nell’arredamento. Dice Marano: «I fattori d’attrazione sono molteplici. Accanto a un fiscalità più equa, c’è uno Stato che funziona: burocrazia snella, pace sociale, stabilità politica, microcriminalità zero, niente lavoro nero, disoccupazione al 4%, libertà di licenziare, due anni di indennità per chi è a spasso, personale qualificato che parla più lingue, infrastrutture eccellenti, un sistema finanziario e un sistema scolastico di primo livello, banche commerciali in grado di accompagnare il cliente nel mondo. La Svizzera è un trampolino per l’Europa e il Medio Oriente. Abbiamo appena fatto uno studio di mercato per una società meccanica monzese da 100 dipendenti che vorrebbe insediarsi in questa zona per poi vendere negli Emirati Arabi». Le prima ondata migratoria di aziende italiane in Svizzera coincide con le grandi rivendicazioni sindacali del decennio 1970, con l’avanzata elettorale del Pci, il terrorismo, i sequestri di persona. A lasciare l’Italia e il clima sociale rovente di quegli anni sono industriali già affermati come Zegna, Perfetti, Recordati, Zambon. Oggi il Ticino è il rifugio dei piccoli imprenditori. Spiega Luca Venturi, consulente in comunicazione: «Talvolta arrivano padroncini con moglie, figli e operai al seguito. L’imprenditore italiano tipo che oggi viene in Ticino si considera vittima dell’euro, non crede nell’Unione europea ed ha paura dell’instabilità politica e sociale del suo paese». Nel Cantone è il benvenuto, purché non faccia concorrenza alle imprese locali; e se assume cittadini elvetici o si insedia in zone depresse gli si spalancano le porte dell’amministrazione. Talune aziende sono riuscite a negoziare con il Comune svizzero di residenza esenzioni fiscali anche decennali. Essere centro d’attrazione d’imprese porta utili anche nelle casse delle comunità locali. Paradiso, che con i suoi 4.500 residenti è tutt’uno con Lugano, è tra i Comuni ticinesi più ricchi perché annovera tra i propri contribuenti la Fiat Group International, holding estera della casa torinese, e la Mabetex di Behgjet Pacolli, l’imprenditore leader per l’Alleanza del Nuovo Kosovo. Di tanto in tanto è ospite a Paradiso anche il leader del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, che ha casa (ma non residenza fiscale) a pochi passi dall’Hotel de la paix, della famiglia Recordati. Fiscalità ai minimi e basso costo del lavoro. Potrebbe sembrare un paradosso per uno dei paesi con il maggior Pil pro-capite al mondo, ma non lo è per niente. I 60mila frontalieri – gli italiani che varcano ogni giorno il confine per andare a lavorare in Svizzera – rappresentano, per le imprese dello Stivale che hanno eletto domicilio nel Cantone, una specie di "esercito salariale di riserva". Ce lo spiega un imprenditore comasco che ha spostato l’attività di vendita a Lugano: «Abbiamo costituito in Svizzera una società indipendente da quella italiana, che acquista l’intera produzione del nostro stabilimento di Como e la rivende qui a marchi come Gucci ed Etro, che poi la esportano in tutto il mondo. I frontalieri che impiego mi permettono di risparmiare il 30% delle imposte che dovrei versare in Italia. Mi costano meno, anche se ora l’ufficio del lavoro impone un livello minimo di stipendio per evitare la concorrenza tra dipendenti italiani ed elvetici. D’altra parte, pagando le tasse in Svizzera, il frontaliere si ritrova un netto in busta paga più sostanzioso di quello che avrebbe in Italia a parità di stipendio. L’unica complicazione sono le spedizioni dall’Italia. La Svizzera non è nella Ue. La merce, per attraversare il confine, deve essere accompagnata sempre da fattura». Gli chiediamo quanto diffusi siano nella zona di Como i processi di delocalizzazione. Sfodera un sorriso sornione: «Chi si sposta non lo dichiara certo ai quattro venti. Sarebbe un guaio se la Guardia di Finanza stabilisse che l’attività in Svizzera e quella in Italia sono tra loro correlate». L’azienda che apre una unità in Svizzera, ma mantiene il suo centro decisionale in Italia resta infatti sottoposta, per l’Agenzia delle entrate, alla sovranità fiscale italiana. L’intera questione si ricollega all’inziativa dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti di includere la Svizzera nella "lista nera" dei rifugi fiscali. Una decisione che ha già fatto vittime illustri come la Elti. Sede ha Sovere, in provincia di Bergamo, la Elti, che opera nella siderurgia, ottenne dalla Svizzera nel 2007 un finanziamento pubblico senza interessi e un’esenzione fiscale decennale per realizzare un impianto a Giornìco (Bellinzona). Ma la nuova struttura industriale non è mai entrata in funzione per i vincoli della black list. Per non sottostare al regime impositivo italiano la Elti Suisse sembra abbia preferito rinunciare ai dieci anni di esenzione fiscale ottenuti in Svizzera e riconvertire il progetto. Un monito, ma anche il rischio che un numero crescente di aziende decida di chiudere la sede in Italia per passare definitivamente, armi e bagagli, al di qua del confine.