Natalia Aspesi, la Repubblica 29/5/2013, 29 maggio 2013
SOGNI, INCUBI E VISIONI BENVENUTI ALLA BIENNALE
VENEZIA Dentro una teca-cassaforte, sorvegliata da una robusta poliziotta, sotto la volta restituita agli affreschi del 1909 di Galileo Chini, giace questo famoso Libro rosso, mai esposto in Italia, aperto su due pagine fiammeggianti di colori e forme allucinate, e per il resto fitte di una ancora più inquietante, minuscola, perfetta scrittura da manoscritto miniato da un folle. Carl Gustav Jung impiegò 16 anni a completarlo, per raccontare le interpretazioni analitiche delle sue personali, terrorizzanti allucinazioni, iniziate quando, dodicenne e devoto, guardando il cielo, vide Dio in trono defecare sulla cattedrale di Basilea, frantumandone il tetto.
È subito chiaro quindi che in questa 55esima Esposizione Internazionale d’arte non ci aspettano né sbadigli né presunzioni, ma invece massime sorprese, scoperte elettrizzanti, deviazioni apocalittiche, divertimenti e spaventi; e certo un modo di mostrare la contemporaneità dell’arte non pigiandola di sola arte contemporanea. Ci voleva un coraggioso e sapiente direttore artistico per liberare la più antica (ha 118 anni) e venerata delle Biennali dalla tradizionale accoglienza di grandi star spesso momentanee del mercato e del collezionismo, e da una banda di giovani artisti che pretendendo subito immortalità e milioni, spesso scompaiono nel giro di pochi anni.
Il lungimirante presidente Paolo Baratta, dopo anni di curatori tradizionali, ha quindi affidato questa Biennale a, come dice, «un uomo della generazione prossima»: Massimiliano Gioni, nato a Busto Arsizio, un quarantenne gentile che pare un trentenne, un tempo spiritoso sodale di Cattelan ormai autopensionato, già con una grande carriera alle spalle, adesso condirettore del New Museum di New York, tutto stropicciato Trussardi (della cui Fondazione è direttore artistico) e scarpe sportive rosse, che con la moglie Cecilia Alemani, pure lei curatrice di musei, forma una coppia dalla complicità innamorata, di massima bellezza, eleganza e contemporaneità.
Non è stato difficile per Gioni trasformare la “sua” Biennale in un luogo non di pensoso affanno dell’arte più recente, ma in una specie di momento di sosta, di cura, in cui rintracciare radici impensabili, maestri sconosciuti, immagini dimenticate, e conquistare una nuova ispirazione, in grado di liberarsi dall’eccesso di immagini dell’attualità, che come una irrefrenabile epidemia ci assediano ovunque e in ogni momento, accecando il pensiero e la fantasia. Anche degli artisti.
I due spazi curati da Gioni, ai Giardini e all’Arsenale, sono legati dallo stesso titolo, «Il Palazzo Enciclopedico », miraggio di un operaio migrante abruzzese finito in Pennsylvania, che negli anni Cinquanta costruì da dilettante visionario, il modellino, alto 3,3 metri, di un grattacielo di 136 piani, tra l’Empire State Building e San Pietro, per contenere tutto lo scibile umano: e che conservato all’American Folk Museum di Manhattan, adesso giganteggia all’inizio del percorso dell’Arsenale. E il miraggio, o l’ossessione, o l’incubo, o i deliri, ma anche i sogni e le visioni, continuano con i 158 artisti, di cui una quarantina defunti, provenienti da 38 paesi. Artisti veri, artisti della domenica, artisti loro malgrado, artisti non artisti, che con la loro fantasia, i loro fantasmi o la loro disperazione, hanno inventato immagini dell’anima, ricreando o cancellando la realtà, e che proposte oggi, sembrano restituire all’arte la magia perduta o deviata. E per esempio, l’idea che oggi noi abbiamo di una igienista dentale è quella di un popputo consigliere regionale eletta sorvegliante di una minorenne in pericolo: invece Gioni ne ha scovata una, Anna Zemànkovà, nata nel 1908 nell’allora repubblica ceca, che si svegliava alle 4 del mattino per disegnare febbrilmente le sue fantasticherie di depressa.
Non è la sola persona via di testa che lasciando tracce dei suoi incubi, non abbia incuriosito il sereno Massimiliano a caccia di fantasmi poco conosciuti e perciò ancora più preziosi per l’arte: così sono esposte le tele del minatore francese Augustin Lesage, morto nel 1954, che conversava con gli spiriti compreso quello di Leonardo da Vinci e poi riempiva i suoi quadri anche enormi, di motivi caleidoscopici ed egittologie, diventando una star dell’occultismo. Come la svizzera Emma Kunz, che dal 1939, guidata da un pendolino, produceva disegni non come opere d’arte ma come rituale di guarigione per i suoi pazienti.
Certo, girando nel labirinto ricostruito dentro l’Arsenale e nelle sale del palazzo dei Giardini, pare di percorrere un sentiero sconosciuto e affascinante di ciò che il contemporaneo non prevede; cioè l’occulto, il mistero, le credenze, lo spirito, anche il religioso. Per cui capita di toccar ferro davanti ai lavori astratti molto colorati della anche lei defunta svedese Hilma af Klint, che avendo studiato arte, nel 1896 con quattro compagne diede vita al gruppo occultista “Le cinque”, che comunicava con entità ultraterrene. Il teofilosofo Rudof Steiner criticò la sua pittura medianica, e guarda come va il mondo, adesso la Biennale espone le lavagne nere da lui disegnate a colori durante le sue cinquemila conferenze in giro per il mondo.
Ma non è detto che la bizzarria che si fa arte appartenga solo ai defunti: e per esempio ha 31 anni la praghese Eva Kotàtkovà che espone una grande installazione composta dai pazienti di un ospedale psichiatrico che vi hanno deposto alla rinfusa oggetti, ritagli, collages: se si guarda bene, dentro una gabbia si intravede la testa di una vera ragazza, in un altro punto spunta un braccio maschile: dandosi il turno, ci saranno tutti i giorni, per tutto il giorno, sino a novembre. Il giapponese Shinichi Sawada è ancora più giovane, ha 26 anni, è affetto da una grave forma di autismo, e riesce a comunicare col mondo attraverso le sue bellissime piccole sculture di creta, draghi, demoni, totem, frutto di una mitologia segreta e personale. Invece il video del polacco Artur Zmijewski mostra un gruppo di ciechi che dipingono appassionatamente ciò che non conoscono, il prato, il sole, se stessi, su carta distesa per terra.
L’americana Cindy Sherman, celebre per autofotografarsi con vari travestimenti, porta all’Arsenale il suo museo personale, i ritratti di bottoni e passamaneria di Enrico Bai, l’infante in culla con uno scarabeo sull’occhio e una pelliccia che respira, della sessantenne tedesca Rosemarie Trockel, la statua che pare perfettamente vera di una donna in tailleur blu che poi andandole vicino risulta alta quasi tre metri, dell’americano Charles Ray, 60 anni; e una ricca collezione di fotografie antiche di neonati, di famigliole anni Venti, di travestiti anni Settanta in ambienti domestici. Rifulgono, tra tarocchi, disegni Shaker, arazzi fatti con biro e fazzoletti dai carcerati di origine messicana, bandiere vudu haitiane, tarocchi, fumetti, ex voto del Santuario di Romituzzo, scarabocchi di sciamani delle isole Salomone, dipinti tantrici e tutto ciò che è immaginario, ossessione e invisibile, tre signore, vere pittrici: la grande italiana Carol Rama, 95 anni, con i suoi disegni fatti sin da bambina con rossetti e smalto per le unghie, e i due premi alla carriera: l’italiana Marisa Merz, 85 anni, con gli autoritratti come icone religiose, e l’austriaca Maria Lassnig, 94 anni, che tuttora si ritrae nuda, anche abbracciata ad altri vecchi.