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 2013  maggio 28 Martedì calendario

OSIO, IL BANCHIERE TRADITO DAGLI INTRIGHI DI ROMA

Quando, nel 1925, fu chiamato a guidare l’Istituto nazionale di credito per la cooperazione (che nel 1929 si sarebbe trasformato in Banca nazionale del lavoro), Arturo Osio, trentacinquenne, aveva già alle spalle un passato politico di una qualche consistenza. Era stato un dirigente del Partito popolare, all’interno del quale aveva militato nell’ala capitanata da Guido Miglioli, che nel congresso di Napoli (aprile 1920), aveva proposto l’espropriazione delle terre nonché l’alleanza con il Partito socialista e con ciò si era messa in urto esplicito con Luigi Sturzo, fondatore e segretario del partito stesso. Alle elezioni amministrative del 1922 (l’anno della marcia su Roma), Osio era entrato nel consiglio comunale di Milano come rappresentante di Miglioli e nel 1924 (l’anno dell’uccisione di Giacomo Matteotti) aveva rotto con il partito da posizioni di sinistra, rinunciando addirittura al proprio mandato milanese. Nel periodo in cui Benito Mussolini dava vita al regime fascista (1922-25), Osio si era dunque distinto come un uomo di corrente del sindacalismo cattolico e aveva dato battaglia contro la linea moderata dei suoi compagni che, quantomeno fino al 1923, si erano resi disponibili ad un’alleanza con il Partito nazionale fascista.
Così furono non poche le perplessità quando quell’avvocato mantovano (si era laureato in legge dopo aver studiato al Collegio Ghislieri di Pavia), su spinta del ras di Cremona Roberto Farinacci e di Enrico Maria Varenna, venne nominato a sorpresa direttore dell’Istituto. Unico suo titolo di merito agli occhi del regime (oltre ad una tessera presa in tutta fretta qualche settimana prima della nomina) poteva essere considerato l’aver lui combattuto nella Grande guerra ed essersi guadagnato due medaglie di bronzo al valor militare. Ma non era questo, né l’ottima impressione che l’avvocato gli aveva fatto al primo incontro, che aveva convinto Farinacci a spendersi per Osio.
Secondo Valerio Castronovo — che di lui si occupa diffusamente nel volume Storia di una banca. La Banca nazionale del lavoro nell’economia italiana, 1913-2013, in procinto di essere pubblicato da Laterza — quel che aveva indotto Farinacci a sponsorizzare la candidatura di Osio erano proprio i suoi precedenti politici «così discutibili agli occhi del regime». Con quella nomina, secondo Farinacci, doveva essere chiaro a chiunque «che la sua era un’operazione di potere del tutto personale e quindi insindacabile». In secondo luogo, «la presenza ai vertici della Banca di un personaggio che non poteva accampare benemerenze politiche di alcun genere nell’ambiente fascista (e anzi aveva da farsi perdonare certi peccati di gioventù)», né poteva vantare particolari protezioni nei circoli finanziari, sembrò «la soluzione più acconcia per garantire senza impacci di sorta la realizzazione del programma di smobilizzo dell’Istituto che Farinacci si era proposto». Smobilizzo?
L’Istituto nazionale di credito per la cooperazione era stato fondato nell’agosto del 1913, in piena età giolittiana, per volere di un conservatore illuminato, Luigi Luzzatti, che l’aveva concepito nel corso della sua breve esperienza di presidente del Consiglio (marzo 1910-marzo 1911). «Lo Stato deve concedere alle organizzazioni dei lavoratori le stesse agevolazioni creditizie che concede alla borghesia; di fronte alle banche per le classi agiate, devono esserci quelle per le classi disagiate; il diritto è identico a quello del capitale», aveva dichiarato Luzzatti nel maggio del 1912 e di lì a quindici mesi era stato fondato l’Istituto. Il progetto poi, nelle intenzioni di Giovanni Giolitti, voleva essere un segnale ai socialisti riformisti e ai quadri dirigenti della cooperazione agricola (alla fine del 1912 esistevano in Italia una ventina di consorzi, con 195 cooperative associate di lavoro e produzione), un mondo con cui i rapporti erano diventati tesi a seguito della guerra di Libia. Altro grande sponsor dell’operazione era stato Francesco Saverio Nitti, secondo il quale l’Istituto sarebbe servito ad arginare la crisi creditizia (prodottasi nella seconda metà del 1912) che aveva assai danneggiato l’universo delle cooperative.
Per bilanciare l’immagine «rivoluzionaria» dell’Istituto, fu nominato presidente Cesare Ferrero di Cambiano, già alla guida della Federazione nazionale delle casse di risparmio, esponente della destra liberale, buon amico di Sidney Sonnino (con lui capo del governo, era stato sottosegretario ai Lavori pubblici) e di Antonio Salandra. Affiancato, a ulteriore bilanciamento del bilanciamento, dal riformista Luigi Della Torre. Ma pesi e contrappesi servirono a poco: quando nel 1917 Ferrero di Cambiano aderì all’Alleanza nazionale, un’associazione molto connotata a destra, l’Istituto entrò in crisi. Crisi destinata a protrarsi nei tempestosi anni del primo dopoguerra, allorché il mondo cooperativo si ritrovò nel mirino degli squadristi mussoliniani e, sulle colonne del «Corriere della Sera», l’Istituto fu messo in discussione perfino da Luigi Einaudi.
La situazione peggiorò dopo che la Lega delle cooperative, importante referente dell’Istituto, entrò in qualche modo in politica conferendo mandato al Partito socialista — all’epoca su posizioni massimaliste e rivoluzionarie — di rappresentare i propri voti in sede parlamentare e legislativa. Sulla scia delle critiche di Einaudi, ai dirigenti della Lega e dell’Istituto, riassume Castronovo, all’epoca «si rinfacciava di aver creato una specie di "piovra dello Stato", di drenare per fini politici risorse finanziarie che avrebbero potuto essere impiegate altrimenti per sorreggere l’iniziativa privata o per alleggerire il deficit dell’erario».
Così, quando Mussolini giunse al potere (ottobre 1922) e soprattutto quando passò dalla stagione del movimento a quella del regime (gennaio 1925), fu deciso che l’Istituto dovesse essere, appunto, «smobilitato». E a condurre in porto l’operazione fu scelto Osio. Ma, nonostante l’Istituto si trovasse in uno stato comatoso (145 milioni di perdite a fronte di un capitale di 250 milioni), Osio non ci pensò neanche un attimo a svolgere un ruolo da mero curatore fallimentare. E, a dispetto dell’antipatia che gli manifestava il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi di Misurata (in ottimi rapporti con la rivale Banca commerciale), si mise immediatamente all’opera per rimetterne in sesto la situazione economica e patrimoniale. Godeva dei favori del ministro dell’Economia nazionale Giuseppe Belluzzo. Ma era ostracizzato dal ben più importante sottosegretario allo stesso dicastero, Italo Balbo. Il quale Balbo, più che lui, aveva in odio il suo protettore Farinacci, che proprio in quei mesi si trovava in contrasto con Mussolini (e Balbo ne approfittò per mandare un’ispezione alla banca di Osio).
Chi si pose ad arbitro di questi conflitti fu, inaspettatamente, lo stesso Mussolini il quale dal settembre del 1926 prese ad incontrarsi regolarmente con il banchiere. E per Osio, che nel frattempo aveva rapidamente maturato grandi capacità, iniziò un periodo d’oro. Tra il 1927 e il 1928 lavorò a una completa riorganizzazione dell’Istituto, nel cui consiglio di amministrazione entrarono personalità del regime di prima grandezza: il presidente dell’Ente nazionale per la cooperazione Dino Alfieri, il deputato Bruno Biagi, presidente della Federazione nazionale fascista delle cooperative di consumo, e persino il segretario amministrativo del Pnf, Giovanni Marinelli. Tutti destinati a diventare ottimi amici di Osio, assieme a Edmondo Rossoni, grande leader dell’organizzazione sindacale fascista. Ma le punture di spillo da parte di Balbo si intensificavano. Come quella a favore del Consorzio cooperativo della sua città, Ferrara: «Bisogna che il tuo intervento sia all’altezza della situazione», scriveva Balbo a Osio in una lettera del 20 marzo 1928, «e non fare lo strozzino». Adesso, però, Osio poteva reagire con un’alzata di spalle.
L’abilità con cui Osio «seppe rimontare la corrente a lui sfavorevole e sfruttare ogni pedina a sua disposizione, agevolò il definitivo riordinamento dell’Istituto». E così il 18 marzo 1929 l’Incc fu dichiarato istituto di credito di diritto pubblico e assunse la denominazione di Banca nazionale del lavoro. «La creatura di Luigi Luzzatti, nata nel 1913 per fornire assistenza finanziaria alle cooperative e promossa dopo la guerra a ente pubblico, creatura che dopo l’avvento del fascismo e la liquidazione del movimento cooperativo sembrava avere i giorni contati», scrive Castronovo, «non solo era riuscita a ricostruire il suo patrimonio ma si stava trasformando in una grande banca pubblica». E dopo la grande crisi del 1929, con l’intervento sempre più ampio del governo nella vita economica, «l’attività dell’Istituto aveva assunto nuove dimensioni non più legate soltanto alla possibilità di svolgere i servizi bancari ordinari connessi con la presenza dello Stato nell’erogazione nella gestione temporanea dei servizi finanziari di alcuni enti pubblici e di altri organismi sindacali e mutualistici».
Avvalendosi delle norme del 1927 sulla concentrazione delle attività bancarie e facendo leva sulle difficoltà economiche di numerose banche di provincia, colpite dalla crisi, o già afflitte da una «sproporzione cronica fra elevati rischi di congiuntura e scarse coperture patrimoniali», la Bnl aveva cominciato ad allargare il lavoro bancario attraverso «la moltiplicazione di sportelli e di filiali». E giunse più preparata di altri istituti alla riforma bancaria del 1936 — l’evento più importante degli anni Trenta, quantomeno sotto il profilo giuridico-economico —, che tendeva a conferire al sistema una struttura più organica ed efficiente, mediante una razionale distribuzione degli sportelli e l’assorbimento in istituti di maggiori dimensioni di quelle banche a carattere locale che, pur ridotte a mal partito, non potevano essere poste in liquidazione per non privare interi territori di qualsiasi servizio bancario.
Proprio per il fatto che, scrive Castronovo, ancor prima che la riforma bancaria procedesse alla graduale eliminazione dei «doppioni inutili» (tante piccole banche, troppo disperse e soggette a influenze personali) e a una riorganizzazione delle strutture bancarie in termini più razionali, la Banca nazionale del lavoro aveva portato a termine numerosi interventi di salvataggio, e quindi di incorporazione di varie aziende bancarie (Banca di credito di Lubiana, Banco Rossini di Cremona, Banca della Lucchesia, Banca agricola italiana di Torino, Banca popolare agricola commerciale di Pavia, Banca popolare di Broni, Banca Askard Casardi & C. di Firenze, Banca Cambi di Vicenza, Sezione del credito fondiario sardo)». Alle quali va aggiunta la complessa ristrutturazione, sotto il controllo della Bnl, della Banca delle Marche e degli Abruzzi.
Nel volgere di qualche anno, Osio era diventato un attore di prima grandezza sul palcoscenico dell’economia italiana. Purtroppo, però, ne era eccessivamente consapevole. E non nascondeva più l’attitudine ad occuparsi precipuamente della costruzione di un suo personale sistema di potere. Con impeto e una qualche arroganza. Lungo questa via, Osio finiva per attirare l’attenzione antipatizzante di persone che tendenzialmente mai lo avrebbero osteggiato. Come il ministro delle Finanze Antonio Mosconi, che, parlando di Osio, così scriveva, in una lettera del 9 marzo 1932, a Benito Mussolini: «È fuori discussione la sua completa mancanza di forme… Nulla fu possibile mai di concretare, a proposito della sua azione come direttore di Banca, nei riguardi della correttezza; è certo che talvolta nel proporre operazioni egli si ispira anche a sue ragioni di opportunità per assecondare desideri di personalità politiche, senza dubbio allo scopo di cattivarsene il favore, sapendo la sua posizione sempre discussa; ma non si è mai potuto avere concreto indizio di lucri personali indebiti».
A segnalare quei suoi «lucri personali indebiti» provvedeva, però, un numero sempre più copioso di lettere anonime che giungevano sul tavolo di Mussolini. Il quale, anziché cestinarle, le catalogava e le conservava. All’Archivio centrale dello Stato, nella cartella «segreteria particolare del Duce», sono riposte informative in cui i nomi di Farinacci, Biagi, Antonio Stefano Benni, Gino Olivetti e Rossoni vengono identificati in un vero e proprio «gruppo di potere». A disposizione di Osio.
In compenso, all’interno della Banca si formava e iniziava a crescere proprio in quegli anni un insieme di talenti destinato a lasciare traccia nella storia economica italiana: Alberto Basevi, già segretario di Luzzatti, ora capo del servizio fidi, Imbriani Longo, Asbite Nepi, Emilio De Marchi capo dell’ufficio studi, Celeste Guadagnini, capo dell’ufficio ispezioni, Salvatore De Marco alla guida della Banca delle Marche e degli Abruzzi, Luigi Simeoni e Federico Pollack (provenienti dalla Banca italo-britannica) ai quali spettava occuparsi di Africa orientale e di estero. Molti validi funzionari che avevano perso il posto in altre banche a seguito della crisi del ’29 venivano inoltre recuperati dalla Bnl.
A questo punto Osio si dedicò quasi esclusivamente a cementare le sue relazioni politiche. Con ogni mezzo. Per assecondare il grande interesse che Mussolini e Galeazzo Ciano avevano nei confronti del cinema (il 30 marzo del 1935 fu presentato alla Camera un apposito disegno di legge, la produzione cinematografica nazionale e l’attività dell’Istituto Luce vennero poste sotto il controllo diretto del sottosegretario per la Stampa e la propaganda), Osio creò una sezione della banca per il credito cinematografico guidata da Luigi Freddi ed entrò così, scrive Castronovo, «a vele spiegate» nel mondo della celluloide. «L’importanza dell’iniziativa, voluta particolarmente dal nostro Regime», scriveva Osio a Freddi nell’ottobre del ’35, «è tanto sentita da me banchiere (un po’ strozzino se vuoi! Ma fascista!) che ho fatto di tutto perché la Banca del lavoro vi porti la sua più valida e intelligente collaborazione».
A suo giudizio, concede Castronovo, le Sezione autonoma per il credito cinematografico «non avrebbe dovuto limitarsi a far da tonico per l’industria del cinema, ma estendere sempre più la propria attività in un settore che, in seguito alla progressiva riduzione della produzione americana, si presentava quanto mai promettente». E non ci si doveva concentrare sulle pellicole di qualità ma si dovevano dedicare risorse anche ai film più commerciali. La Banca nazionale del lavoro a quel punto «diventò il perno di tutto il sistema cinematografico italiano, che, a sua volta, assunse finalità di natura più mercantile». La Roma di attori, attrici, registi e sceneggiatori fu da quel momento ai piedi di Osio. Che aggiunse alla lista dei suoi «amici più stretti», oltre a Galeazzo Ciano, il governatore di Roma e poi (1936) ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai.
Diffidente nei suoi confronti fu invece il governatore della Banca d’Italia Vincenzo Azzolini. Il governatore e come lui altri membri dell’Ispettorato per il credito «si erano fatti l’idea che Osio tendesse ad alzare continuamente la mira e che quindi fosse opportuno smorzare le sue pretese senza tuttavia giungere a un punto di rottura». Osio riteneva per parte sua di essere vittima di una palese disparità di trattamento mascherata dietro una cortina fumogena di convenzioni e formalità burocratiche, ciò che lo spingeva a parlare di «incomprensioni se non di sabotaggi nei suoi confronti». Stando al tenore della corrispondenza tra Azzolini e Osio, Castronovo deduce che «il primo dei due interlocutori fosse portato, pur nell’esercizio delle sue responsabilità, a eccedere in rigore e in formalità» e che «il secondo, pur non chiedendo la luna, tendesse costantemente ad aggirare i normali rituali, più per naturale impazienza che per prevenzione». E ciò finiva, a sua volta, «per accentuare il riserbo e la diffidenza di Azzolini».
Il modo stesso con cui Osio formulava le sue richieste «era spesso indisponente per i termini perentori che egli usava o per il richiamo a "superiori ragioni di giustizia e di interesse nazionale" di cui si proclamava l’interprete più autentico». In più le sue lettere erano scritte con uno stile franco e diretto («O Dio quante storie!»; «Spero nella vostra buona grazia…») che irritava il governatore. Anche se Castronovo riconosce ad Osio di aver avuto in quelle circostanze «le sue buone ragioni». Il carattere però gli suggeriva qualche passo affrettato. Come quello di mettersi in urto con il consigliere di amministrazione della Bnl Giuseppe Frignani, designato a quel ruolo nel 1928 dal ministero delle Finanze in qualità di «persona di speciale competenza in materia di credito e di problemi sociali». Un conflitto forse evitabile che portò nell’aprile del 1937 alle dimissioni di Frignani (un apparente successo di Osio). Senonché Frignani, dopo l’addio alla Bnl, riprese per intero la sua libertà d’azione e come presidente e direttore generale del Banco di Napoli, nonché vicepresidente della Corporazione per il credito, combatté una guerra con colpi assai efficaci contro l’antico nemico. Ma Osio si sentiva forte per aver stabilito un ottimo rapporto con il ministro delle Finanze Paolo Thaon di Revel, il quale si era guadagnato la completa fiducia di Mussolini in virtù del suo «aver dato prova di particolare sagacia e determinazione nel reperimento degli ingenti mezzi finanziari occorrenti per la guerra in Etiopia».
Guerra d’Etiopia, guerra di Spagna, primo anno della Seconda guerra mondiale (quello dal settembre del 1939 al giugno del 1940, in cui l’Italia non intervenne): il clima di quegli anni ispirò una proiezione internazionale della politica bancaria di Osio. Proiezione destinata a lasciare il segno. Nell’aprile del 1938, Osio mandò un suo uomo di fiducia, Leopoldo Alerame Glauer (ex funzionario della Banca commerciale, i suoi grandi rivali) a Parigi, Londra, Bruxelles e Zurigo, successivamente ad Amsterdam, a Praga. E mentre Mussolini si avvicinava sempre più ad Adolf Hitler, da Londra Glauer gli scriveva: «Presso tutti i miei interlocutori prevale l’impressione che il sentimento popolare italiano si senta in fondo più vicino alla Francia ed anche all’Inghilterra, di cui mi si è voluto ricordare con particolare calore i sentimenti amichevoli di vecchia data».
Poi Glauer si era spostato alla fine del 1939, quando la guerra era già iniziata, a New York dove aveva rivaleggiato con Guglielmo Reiss Romoli, lì inviato per conto della Comit da un altro esponente del mondo bancario capace di intravedere nuovi orizzonti: Raffaele Mattioli. Glauer capisce subito le potenzialità di un rapporto con le banche statunitensi e anche i problemi generati dalla pessima immagine del nostro Paese. «Quando una determinata operazione è già quasi in porto, una fandonia qualunque stampata sui giornali a titoli cubitali e chiassosi e sproporzionati alla sostanza dell’articolo stesso, allarma e disorienta l’opinione pubblica e di riflesso tutto l’ambiente finanziario-commerciale, frustrando per settimane intere, ed anche per mesi, lo sforzo compiuto». Immagine, la nostra, aggravata per responsabilità di un giornale, il «Progresso Italo-Americano». Un giornale, scrive Glauer a Osio, «stampato in un italiano che farebbe piangere anche uno scolaro elementare» e che non può «farci rispettare negli Stati Uniti!». Ci vorrebbe invece sul posto una figura di primissimo ordine, conoscitore profondo della psicologia di questo Paese, che si prendesse a cura un compito tanto delicato e, se bene eseguito, altrettanto proficuo e vitale per tutto il complesso dei nostri interessi nazionali».
Senza saperlo, Glauer descrive con qualche anno di anticipo il ruolo e la figura che avrà nel dopoguerra Ugo Stille, corrispondente negli Stati Uniti del «Corriere della Sera». Ma purtroppo c’è appunto di mezzo una guerra. Glauer viene spedito a Buenos Aires e Osio insiste a presidiare gli Stati Uniti fino al maggio del 1941, quando si vede costretto a chiudere l’ufficio di rappresentanza di New York. È l’interruzione di un sogno. Momentanea, spera Osio. Ma quando nel 1945 si riprenderà a guardare oltre oceano, Osio non ci sarà più. Fino al 20 gennaio 1942 le cose per lui sembrano andare nel modo migliore. Si vantava, sia pure scherzosamente, di essere il «dittatore della Banca di Stato», una «potenza del regime», uno dei pochi «uomini indispensabili e insostituibili». Senonché, osserva Castronovo, «il temperamento prorompente più di una volta lo tradiva, lo metteva in urto con i suoi interlocutori su questioni anche di poco conto, ne denotava la mancanza di stile e di moderazione». Piccoli segnali di qualcosa che non va per il verso giusto.
Il 21 gennaio 1942, all’improvviso, Osio apprende dalla radio di essere stato destituito. Farinacci si precipita da Mussolini per chiedere spiegazioni e ottiene soltanto che dalla «Gazzetta Ufficiale», in relazione al caso, scompaia il termine «revoca» sostituito da uno più neutro, «dimissioni». Non riesce nemmeno a convincere Mussolini ad accedere ad un incontro di commiato tra lui e Osio. Osio, che proprio nei mesi precedenti aveva aggiunto al suo carnet di relazioni quelle con Donato Menichella, nuovo presidente dell’Iri, e Igino Giordani, a capo dell’Ina, non si capacita e vede immediatamente farsi il vuoto intorno a lui. Gli riferiscono di voci che malignano sulle feste che ha dato nella sua villa romana in viale di Porta Ardeatina o in quella di Cala Grande all’Argentario, di acquisti di rarissimi pezzi d’arte, di favolose perdite al gioco. Farinacci ottiene che su tali addebiti si faccia un’inchiesta e nessuna di quelle maldicenze — a parte le feste — trova riscontro. Qualcuno fa risalire l’irritazione di Mussolini al rifiuto opposto da Osio al finanziamento di un affare del fratello di Claretta Petacci in Spagna. Altri individuano l’origine di quei guai nel peggioramento delle condizioni sui fronti di guerra (e nella conseguente necessità, per Mussolini, di far fuori le figure in qualche modo più esposte).
Quasi per beffa il nostro personaggio si vedrà sostituito al vertice della Bnl da Alberto D’Agostino, ex braccio destro, alla Banca commerciale italiana, di Mattioli. Quel Raffaele Mattioli che è un po’ il deuteragonista (occulto) di questa storia. Di cinque anni più giovane di Osio, Mattioli era entrato alla Commerciale nel 1925; all’inizio degli anni Trenta era stato chiamato a prenderne le redini come successore di Giuseppe Toeplitz e l’aveva ben guidata nella più totale discrezione, in rapporto con ambienti intellettuali e antifascisti, lontano dai fasti di Roma e dalla complicata navigazione tra gerarchi, attori e attrici. Alla larga da Roma Mattioli era poi agevolmente sopravvissuto alla fine del fascismo, ai tormenti della Repubblica sociale ed era tornato sul ponte di comando della «propria» banca per un lungo e proficuo periodo del secondo dopoguerra.
Dopoguerra nel quale Osio era stato, invece, costretto ad occuparsi per una ventina di anni (fino al 1968, quando morì) di affari minori in Africa e poi di una piccola banca romana. Il posto che gli era appartenuto lo aveva preso, nominato da Ferruccio Parri, un suo «allievo», Imbriani Longo. Un uomo che poteva apparire simile al «maestro», ma non ne condivideva il «carattere impulsivo e passionale». A differenza di Osio, poi, scrive Castronovo, «Imbriani Longo riteneva essenziale mantenere buone relazioni con la Banca d’Italia e a questa regola si atterrà scrupolosamente per tutto il tempo del suo mandato, non assumendo mai alcuna iniziativa che potesse dispiacere ai dirigenti dell’Istituto di emissione, o creare malintesi di sorta».
Imbriani Longo era apprezzato anche dal cosiddetto «mondo dell’alta finanza». Un mondo che, scrive Castronovo, «era stato per un lungo tempo una sorta di santuario, controllato da una ristretta élite di banchieri formatasi nel periodo giolittiano». E neppure il passaggio sotto la gestione dell’Iri delle tre principali banche di credito ordinario «aveva modificato certi sottili rapporti di equilibrio, certi modelli di comportamento». Nell’ambito «di questa sorta di oligarchia, cresciuta alla vecchia scuola, educata a pensare e ad agire secondo uno stile e dei criteri da tempo consolidati, attenta alle regole del gioco e a un certo cerimoniale nelle reciproche relazioni, un uomo come Osio continuava ad essere considerato un estraneo». Era sì nato a Mantova, aveva studiato a Pavia, aveva trascorso la sua prima vita politica a Milano, ma in seguito era diventato, a tutti gli effetti, «romano». E Roma per lui, uomo di indubbie capacità, fu il luogo delle inutili relazioni, degli intrighi superflui, dei giochi di specchi, delle false prospettive che gli spalancarono un baratro proprio nel momento in cui si sentiva più che sicuro, all’apice della sua carriera. Tipiche sorprese romane.
Paolo Mieli