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 2013  maggio 28 Martedì calendario

QUELL’ITALIANO OSTAGGIO DELLA «VOLPE» DI AL QAEDA —

Sector F71, strada 42. Le ultime orme di Giovanni sono qui. La sede dell’ong Welthungerhilfe, da mezzo secolo un aiuto per la fame nel mondo, è una grande casa che galleggia nel verde d’Islamabad. Un piovoso venerdì mattina, nel patio c’è solo un cooperante tedesco, Georg, che gioca a biliardino con tre pachistani: «La maggior parte di noi se n’è andata. Abbiamo avuto l’ordine di non uscire da Islamabad. Questo è un po’ un problema, per i nostri progetti nel Sindh delle alluvioni: li seguiamo a distanza, certo, ma non è la stessa cosa… Siamo rimasti solo in cinque o sei: tedeschi, americani, olandesi, francesi. Italiani no, non più. E a Multan, basta: dopo quel che è successo, per il momento non ci va più nessuno…». Quel che è successo, dura da quasi un anno e mezzo: quattro incappucciati che il tramonto del 19 gennaio 2012 arrivano a Kod Addu, distretto di Multan, cuore del Punjab, puntano le pistole in faccia a due volontari dell’ong, li obbligano a vestirsi coi camicioni pachistani e li portano via. Ingoiandoli in un silenzio che si porta dietro i peggiori pensieri. E che in sedici mesi abbondanti d’angoscia e poveri di notizie ha fatto d’uno di quei due sequestrati, il trentottenne palermitano Giovanni Lo Porto, il meno rivendicato e ricordato degli ostaggi italiani.
Silenzio, si tratta. Di Giovanni, da quel giorno, non si sa più nulla. Non si parla. Non si chiede. È la strategia del silenzio che la Farnesina ha ormai fatto propria, applicandola talora con successo (i quattro giornalisti rapiti in Siria), mantenendola nelle prime settimane della scomparsa di Domenico Quirico, considerandola l’unica via per risolvere casi complicati come quello di Lo Porto. Una linea che sui social network non trova tutti d’accordo, ora che il tempo si fa lungo: l’unica e incerta prova che l’ostaggio sia vivo è in un disperato video di dicembre, 52 secondi inviati a una tv d’Islamabad, dove Giovanni non compare mai e invece è il suo compagno di prigionia, Bernd Johannes Mohlarback, a parlare al plurale («siamo in difficoltà… possono ucciderci ogni giorno… Non fate pazzie, non possiamo essere liberati…»). «Chi commette questi sequestri — spiega una fonte diplomatica —, può avere tre obbiettivi: l’uccisione dell’ostaggio, i soldi o la visibilità». Non è chiaro chi tenga Lo Porto e che cosa voglia: una banda di criminali comuni l’avrebbe ceduto ai qaedisti delle aree tribali, s’era parlato d’un possibile scambio con prigionieri talebani. «Di sicuro è gente cui fa comodo la pubblicità. La comunità pachistana in Italia è la più grande d’Europa, dopo Londra: anche una semplice fiaccolata di solidarietà rimbalza nel Punjab con foto e immagini. Gli appelli, per quanto comprensibili, finiscono per fare da grancassa alla causa». Il silenzio è un dovere, soffertissimo, anche per la famiglia: che angoscia le scorse settimane, quando pure il figlio dell’ex ministro Gilani è stato preso a un comizio, come e dove fu rapito Giovanni.
Dalla polizia pachistana, poche certezze. Ci sono stati quattro arresti, solo bassa manovalanza: «All’inizio volevano chiedere un riscatto — spiega il commissario di Kod Addu, Malek Manzuk — poi hanno cambiato strategia. Ora si punta a un risultato più politico». Il governo regionale pensava di chiudere la questione come fu per un gruppo d’ostaggi cinesi, che bastò riscattare a suon di dollari. O muovendo gli 007 pachistani dell’Isi, da sempre generosi amici dei talebani. «Ma quando s’è capito che c’era di mezzo Maulana Asmatullah Muawiya, le cose si sono complicate». Questo Muawiya è il comandante militare dei talebani del Punjab, costola del jihadismo del Kashmir, ora collegati direttamente ad Al Qaeda e al suo leader supremo, Ayman Al Zawairi, il medico egiziano che ha preso il posto di Bin Laden nelle aree tribali pachistane. Muawiya è la bestia nera dei servizi, fu la mente d’un attacco suicida all’ex presidente Musharraf, al momento tiene in ostaggio Lo Porto e altri cinque stranieri. Lo chiamano «la volpe del Punjab» e un motivo c’è: «Abbiamo molti nemici — ha avvertito i suoi quattrocento uomini, qualche mese fa - ma state attenti: i peggiori sono quelli che fingono d’esserci amici. Attenti all’Isi e a chi ci offre denaro. La guerra agli infedeli ha bisogno di sangue, non di soldi».
Francesco Battistini