Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  maggio 18 Sabato calendario

QUANDO L’EVEREST NON ERA PER TUTTI

1953
Il giorno che cambia la storia dell’Everest e dell’alpinismo è venerdì 29 maggio 1953, quando, alle 11.30 ora locale, il trentatreenne alpinista neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa nepalese-indiano Tenzing Norgay violano il Tetto del mondo, intitolato al geografo e cartografo gallese George Everest (17901866). Figlio di apicoltori, Hillary salì a 8.848 metri poco prima del suo compagno («Tenzing era tre o quattro metri dietro di me», spiegò Hillary in un’intervista). L’organizzazione del capo spedizione, il britannico John Hunt, prevedeva 15 alpinisti, 20 sherpa, 7,5 tonnellate di materiale e oltre 360 portatori. Prima, già undici spedizioni (nove britanniche e due svizzere) avevano provato senza successo a violare The House of the Snow. La più famosa fu quella del 1924, quando George Mallory (già componente della prima e della seconda avventura, datate 1921 e 1922) e Andrew Irvine furono avvistati l’ultima volta a 250 metri dalla vetta. Il corpo di Mallory, che con tutta probabilità non riuscì a salire in vetta prima della morte, fu ritrovato l’I maggio 1999 dall’alpinista americano Conrad Anker.


VI RACCONTO LA MONTAGNA DEGLI EROI –
1978
Sono in Nepal, per aiutare come consulente il regista Andreas Nickel, che sta girando un grande film sull’Himalaya. Ma ovviamente sono qui anche per partecipare alle celebrazioni per i 60 anni della prima salita dell’Everest. Giubileo che purtroppo è stato ormai macchiato da quanto è accaduto a Simone Moro, Uli Steck e Jon Griffith». Reinhold Messner, nonostante ci siano ormai sherpa che sono stati in vetta all’Everest oltre 20 volte, è oggi la figura vivente più rappresentativa per la storia alpinistica della più alta montagna della Terra. Una storia che ha raccontato, a modo suo e con grande successo, in una serata al recente Film Festival di Trento, dove ha posto in primo piano le imprese degli statunitensi, come la prima traversata effettuata proprio 50 anni fa da Tom Hornbein e Willi Unsoeld. Ha dato spazio sul palco al capo di quella grande spedizione, il novantacinquenne Norman Dyhrenfurth. E anche a Ed Webster, che con tre compagni, in perfetto stile alpino, aprì 25 anni fa una via fino al Colle Sud sulla tremenda parete Kangshung, ovvero la est, incomparabilmente meno frequentata delle altre due, la nord e la sudovest, che insieme a essa compongono la piramide dell’Everest.
Sono tanti in questo 2013 gli anniversari per la montagna più alta. C’è pure il quarantesimo della prima italiana, con la spedizione Monzino, la più pesante di sempre in Himalaya. Niente di più lontano dallo spirito di Messner. Che, anche se a Trento non l’ha neppure voluto citare, aveva da festeggiare un anniversario che lo riguarda direttamente. L’8 maggio sono infatti trascorsi 35 anni dalla prima salita senza ossigeno, compiuta dall’altoatesino assieme all’amico austriaco Peter Habeler sul versante nepalese.
La loro fu un’impresa che fece scalpore. C’erano scienziati che la definivano impossibile. Invece ci voleva solamente il coraggio di osare. Ce ne volle molto di più per fare, nell’agosto 1980 e questa volta da nord, l’altra impresa che ha legato definitivamente il nome di Messner alla storia dell’Everest e dell’alpinismo himalayano. Ovvero la prima, e ancora non ripetuta, ascensione solitaria della montagna. Messner fu allora l’ultimo alpinista a conoscere il Sagarmatha (come lo chiamano i nepalesi) o il Chomolungma (secondo la versione tibetana) come lo avevano approcciato i primi esploratori. E soprattutto il mitico George Mallory.
«Era stato proprio Mallory, nella prima spedizione inglese del 1921, a individuare l’accesso al Colle nord attraverso il ghiacciaio di Rongbuk. Era tornato anche con la spedizione del 1921, quando una valanga uccise sette sherpa che lo accompagnavano in un ultimo tentativo di vetta. E poi nel 1924,a 38 anni, partì con Andrew Irvine per un assalto decisivo, questa volta con le bombole. L’ultimo avvistamento li segnalò sulla Cresta nord, forse sotto l’insuperabile second step o più probabilmente sotto il primo. Non importa. Fecero comunque qualcosa di incredibile per quei tempi, vestiti con giacche di tweed, le ghette di feltro, gli scarponi chiodati, la corda di canapa. Il loro spirito è ancora lassù. L’ho avvertito durante la mia scalata del 1980. E continuo ad avvertirlo davanti a qualche vecchia fotografia della montagna e di loro».
L’altra figura mitica nella storia dell’Everest è quella di Edmund Hillary, l’allampanato neozelandese che fu il primo a calcarne sicuramente la vetta, nel 1953, insieme allo sherpa Tenzing Norgay. «La fotografia di Tenzing sulla cima, in quel 29 maggio 1953, è un’immagine che è e resta fra le icone del secolo scorso. Come poi quella del primo uomo sulla Luna. L’Everest era l’ultimo posto della Terra da conquistare. Il terzo Polo. I britannici, che erano stati battuti sia nella corsa al Polo Nord sia in quella al Polo Sud, lo inseguivano perciò con grande accanimento. Il successo di Hillary e Tenzing venne al momento più opportuno, perché la notizia giunse a Londra proprio nel giorno della cerimonia d’incoronazione della regina Elisabetta. Forse l’ultimo grande momento per quello che era stato l’Impero britannico. Anche se in vetta andarono un neozelandese e un indiano. Dalle immagini del film della spedizione si vede bene quale fosse la pressione che c’era sul capo, John Hunt: non poteva fallire. Non bisogna infatti dimenticare che un anno prima una spedizione svizzera era già arrivata molto vicina alla vetta, quota 8.600, grazie a Raymond Lambert. Con l’elvetico c’era proprio quel Tenzing che è immortalato nella mitica fotografia di vetta nel 1953. Se non esiste l’immagine di Hillary in cima all’Everest, il motivo è semplice: Tenzing, che pure parlava varie lingue, non sapeva ne leggere ne scrivere. E tantomeno fotografare. Hillary, con il classico umorismo della sua cultura britannica un giorno mi ha detto: “Non era certo il caso di mettermi a fargli scuola di fotografia a 8.848 metri...”».
Anche su quella prima salita si tentò di innescare polemiche. C’era sempre il nazionalismo dietro. Non è un caso che tutti i leader delle spedizioni himalayane degli anni Cinquanta fossero autocrati con un passato nell’esercito o con una mentalità impregnata di militarismo: da Maurice Herzog, francese, all’Annapurna 1950, a Karl Maria Errligkoffer, tedesco, al Nanga Parbat 1953, all’italiano Ardito Desio al K21954. Così John Hunt che, per la spedizione britannica del 1953 al monte Everest, fu preferito a Eric Shipton, capo di quella del 1951. Si cominciò a discutere su chi fra Hillary e Tenzing fosse stato il primo a toccarla.
«Una questione stupida», commenta Messner. «Erano una cordata. E in una cordata non si fa la gara a chi arriva primo. Comunque, di una stessa scalata non esiste una sola verità, ma tante quante sono coloro che l’hanno compiuta, perché ognuno vive l’avventura in modo personale». La storia dell’Everest di oggi interessa assai meno a Messner: «Hanno fatto presunti record di tutti i generi. Uno più assurdo dell’altro. Non hanno a che fare con l’alpinismo. Adesso c’è il turismo d’alta quota. Corde fisse ovunque sulle due vie normali. L’Everest vero lo incontrano solamente coloro che affrontano vie diverse. Molto più degli inutili record più giovane, più veloce, più anziano e così via contano salite come l’integrale della Cresta ovest, degli jugoslavi nel 1979, anche se era una spedizione pesante. Un bulgaro, Hristo Prodanov, riuscì a ripeterla in un tentativo parzialmente solitario. Purtroppo una bufera ne bloccò la discesa. O come la via sulla parete sud-ovest aperta nel 1975 da Doug Scott e Dougal Haston primi britannici in vetta, 22 anni dopo Edmund Hillary nella spedizione guidata da Chris Bonington. Oppure il Pilastro sud di Jerzy Kukuczka e Andrzej Czok, polacchi così come Krzysztof Wielicki e Leszek Cichy, autori della prima invernale nel 1980. Quello è l’Everest che conta per me».