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 2013  maggio 26 Domenica calendario

GUERRA ALLO STATO COSI’ A FIRENZE ARRIVARONO LE STRAGI

Un boato sconvolse quella notte di maggio. Erano passati pochi minuti dall’una, quando la Torre dei Pulci crollò. Attorno, l’esplosione danneggiò la Galleria degli Uffizi, Palazzo Vecchio, la chiesa dei Santi Stefano e Cecilia, il museo della Scienza e della tecnica. Era il 27 maggio 1993. A Firenze, sotto le macerie della Torre, sede dell’Accademia dei Georgofili, restarono i corpi senza vita dei custodi, Fabrizio Nencioni, 39 anni, e sua moglie Angela Fiume, 36. Morte anche le loro figlie Nadia, 9 anni, e Caterina, che aveva 50 giorni. Le fiamme si propagarono in un edificio vicino, in cui morì Dario Capolicchio, 22 anni, studente. Altre 48 persone restarono ferite. Un quarto delle opere d’arte degli Uffizi furono distrutte o danneggiate: Giotto, Tiziano, Vasari, Bernini, Rubens, Reni, Sebastiano del Piombo, Gaddi, Van Der Weyden.
Un’autobomba. Un Fiorino Fiat imbottito di esplosivo. Nessuna rivendicazione attendibile. L’opinione pubblica è smarrita, fatica a comprendere che cosa sia successo e perché. Chi ha acceso la miccia? Nei giorni seguenti cominciano a circolare ipotesi fantasiose e disparate: narcos colombiani, fondamentalisti islamici, servizi segreti israeliani... Il primo obiettivo degli attentatori viene raggiunto: la confusione cresce, la paura si diffonde, senza che, per il momento, venga indicata Cosa nostra come responsabile della strage. Intanto, chi deve capire ha capito. Sì, perché quella che scoppia a Firenze in via dei Georgofili il 27 maggio è una bomba-messaggio, come le altre esplose in quel drammatico 1993. Il 14 maggio, in via Fauro a Roma, un’autobomba provoca 21 feriti, obiettivo mancato il giornalista Maurizio Costanzo. Nella notte tra il 27 e il 28 luglio esplodono poi, quasi contemporaneamente, tre ordigni: il primo, a Milano, uccide cinque persone e distrugge il Padiglione d’arte contemporanea di via Palestro; il secondo, a Roma, danneggia la basilica di San Giovanni in Laterano e il Palazzo Lateranense, provocando 14 feriti; il terzo, ancora a Roma, procura gravi danni alla basilica di San Giorgio al Velabro e ferisce tre persone.
La lettera Campagna di terrore
Bombe-messaggio: non sono destinate a uccidere. I morti sono messi in conto, certo, e a Firenze (come a Milano) ci sono. Ma l’obiettivo delle menti raffinatissime che pianificano le stragi è innanzitutto lanciare una campagna di paura, un segnale di terrore, un avvertimento: guardate che cosa siamo in grado di fare; e la volta prossima potrà essere peggio. I bersagli degli stragisti sono musei, opere d’arte, luoghi di culto, monumenti importanti per la cultura, la storia d’Italia, il turismo. Messaggi perché chi deve capire capisca. Minacce per aprire un dialogo, una trattativa. Il 30 luglio 1993 alle redazioni del Messaggero e del Corriere della sera arriva un messaggio che nel caos del momento, con decine di anonimi in circolazione, passa quasi inosservato: “Tutto quello che è accaduto è soltanto il prologo, dopo queste ultime bombe, informiamo la Nazione che le prossime a venire verranno collocate soltanto di giorno e in luoghi pubblici, poiché saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. Ps: Garantiamo che saranno a centinaia”. Ci vorranno quattro anni per scoprire chi spedì quel messaggio: Gaspare Spatuzza, uomo di Cosa nostra, che lo imbucò a Roma prima dello scoppio delle bombe del 27 luglio.
Le indagini s’indirizzano verso la mafia siciliana. I collaboratori di giustizia aprono qualche pista. I processi individuano alcuni dei responsabili. Nel giugno 1996, all’udienza preliminare, il giudice dice che la strage di Firenze è stata opera dell’organizzazione mafiosa Cosa nostra, ma che dietro la strategia stragista si intravvedono “menti più fini” di quelle mafiose. Il dibattimento si apre il 12 novembre 1996. Il 6 giugno 1998 la sentenza di primo grado commina 14 ergastoli ai boss, tra cui Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro. Nel gennaio 2000 un processo stralcio aggiunge due ergastoli a Totò Riina e a Giuseppe Graviano. Nel maggio 2002 la Cassazione conferma 15 ergastoli. Nel 2003, condanna in appello a 21 anni di carcere per Antonino Messana: è l’uomo nella cui abitazione di Prato viene imbottito di tritolo il Fiorino usato per l’attentato. Più recentemente, arrivano le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia dei Graviano. Viene condannato all’ergastolo il pescatore Cosimo D’Amato, accusato di aver fornito il tritolo per le stragi. E si sta celebrando l’appello per Francesco Tagliavia, il boss che ha organizzato il gruppo di fuoco per la strage. Dunque i mandanti e gli esecutori sono uomini di Cosa nostra che avevano deliberato “una sorta di stato di guerra contro l’Italia”. “Fare la guerra per poi fare la pace”: questo era il programma di Riina nella stagione stragista 1992-93. Avviata dopo che Cosa nostra aveva subito un duro colpo: il 30 gennaio 1992 la Cassazione aveva confermato gli ergastoli inflitti ai boss nel maxiprocesso di Palermo istruito da Giovanni Falcone. L’organizzazione mafiosa lo ritiene un tradimento degli impegni assunti dai suoi vecchi referenti politici dentro la Dc e passa all’attacco: il 12 marzo 1992 uccide Salvo Lima, proconsole di Giulio Andreotti in Sicilia; poi elimina i suoi nemici mortali, Giovanni Falcone (23 maggio) e Paolo Borsellino (19 luglio); infine trasferisce, per la prima volta nella sua storia, la guerra “in Continente”, a Firenze, a Roma, a Milano. Dichiara guerra allo Stato. Per avviare una trattativa, per individuare nuovi referenti politici. Del resto, nel 1992-93 era crollato il sistema politico della prima Repubblica: le indagini di Mani pulite avevano avviato una grande trasformazione, in politica stavano emergendo nuovi partiti, mentre le vecchie sigle (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) uscivano di scena. Riina stila un “papello” di richieste allo Stato, prima fra tutte la revoca del carcere duro imposto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, poi avvia una trattativa con uomini delle istituzioni, sotto la minaccia degli attentati.
A pianificare le stragi del 1993, dicono le indagini e confermano i processi, è la Commissione di Cosa nostra, in prima fila Leoluca Bagarella e i fratelli Graviano. Sono loro i “mandanti di primo livello”. Ma “dietro le stragi ci sono mandanti a volto coperto”: così va ripetendo l’allora procuratore antimafia Piero Luigi Vigna.
A Firenze viene condotta un’indagine, riservatissima, a carico di due persone iscritte come “Autore 1” e “Autore 2”: sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Si chiude nel novembre 1998 con un’archiviazione in cui si afferma di non aver trovato elementi sufficienti per rinviarli a giudizio. Eppure, scrive il giudice, i due “soggetti di cui si tratta” hanno “intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista”. Trattativa e mandanti a volto coperto: su questo lavorano per anni gli investigatori e il pubblico ministero Gabriele Chelazzi. Più di un mafioso fa i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Tra questi, un uomo d’onore vicino a Giovanni Brusca, Giuseppe Monticciolo, il quale mette a verbale che le stragi del 1993 furono chieste a Cosa nostra da “Berlusconi e Dell’Utri, attraverso il fattore di Arcore, Vittorio Mangano”. Questi avrebbe indicato a Bagarella i raffinati obiettivi degli “attentati che volevano fatti Berlusconi e Dell’Utri”. I boss non sapevano neppure che cosa fossero gli Uffizi, spiega nel 2000 Monticciolo a Chelazzi, presenti l’allora procuratore di Palermo Pietro Grasso e il pm Vittorio Teresi. “Dell’Utri dice... che si dovevano fare... Dice: Allora... sapete arrivare anche a fare qualcos’altro, per esempio la strage degli Uffizi e via dicendo. E da lì Bagarella ordinò”.
Chelazzi mette sotto indagine anche un ex senatore democristiano, Vincenzo Inzerillo. E ascolta come testimone il prefetto Mario Mori, allora direttore del servizio segreto civile. Gli chiede di riferire sui rapporti intrattenuti dopo il 1992, quando era comandante del Ros carabinieri, con uomini vicini a Cosa nostra. Pochi giorni dopo, il 17 aprile 2003, muore stroncato da un infarto. Nella sua ultima lettera, destinata al procuratore di Firenze Ubaldo Nannucci, Chelazzi esprime tutta l’amarezza di un uomo lasciato solo a indagare su una vicenda in cui uomini delle istituzioni appaiono compromessi nella trattativa con i boss. Oggi, dopo tanti anni, sappiamo qualcosa di più sulla trattativa e sui mandanti a volto coperto. Per Mori, sotto processo a Palermo, il pm ha chiesto pochi giorni fa 9 anni di carcere, per il mancato arresto di Provenzano, individuato in un casolare il 31 ottobre 1995. “Mori ha aiutato Provenzano non perché colluso”, ha detto il pm Nino Di Matteo nella sua requisitoria, “ma perché ha adottato una scelta di politica criminale sciagurata, cioè quella di far prevalere le esigenze di mediazione tra Stato e mafia”.
Il segnale Stop al carcere duro
La trattativa, dunque. Quella che dopo le stragi del 1993 permette a Provenzano di restare libero per anni e che consente a qualche boss di sfuggire al carcere duro. L’ultimo botto progettato dagli stragisti doveva avvenire sul finire del 1993, allo stadio Olimpico di Roma, e fare molti morti. Non avviene. La stagione delle stragi si interrompe. In cambio, nel novembre di quell’anno di messaggi e minacce, lo Stato decide di dare un “segnale di distensione” ai boss: la revoca di 334 provvedimenti di 41 bis. Domani a Palermo, proprio nel ventesimo anniversario della strage di Firenze, si apre il processo sulla trattativa. Imputati, cinque uomini schierati sul fronte di Cosa nostra (Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Giovanni Brusca e il testimone Massimo Ciancimino) e cinque rappresentanti delle istituzioni (gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, l’ex senatore Dell’Utri e l’ex ministro Nicola Mancino).
Sui mandanti a volto coperto, però, molto è ancora da scoprire e soprattutto da provare. “Le indagini non devono e non possono chiudersi mai”, ha affermato ieri il procuratore della Repubblica di Firenze, Giuseppe Quattrocchi. “Si può nutrire il dubbio che non sia stata solo mafia. Su questa ipotesi, che è più di un dubbio, abbiamo lavorato, alla ricerca di prove o indizi gravi, precisi e concordanti. Sui mandanti, ma si possono chiamare ispiratori o agevolatori, siamo fermi”. E allora il procuratore lancia un appello: “Se qualcuno, dentro o fuori le carceri, dopo 20 anni, ha non dico la voglia ma la consapevolezza e la coscienza di poter dire qualcosa che non sappiamo, ce lo dica o anche soltanto ce lo faccia capire: ci basta”.