Federico Rampini, D la Repubblica 28/5/2013, 28 maggio 2013
CAROLINE KENNEDY IN TRIBUNALE: AL SERVIZIO DELLA LEGGE
Il mio nome è Caroline Kennedy. Età: cinquantacinque anni. Abito nell’Upper East Side di Manhattan. Stesso indirizzo da venticinque anni. Vivo con mio marito e due figli maggiorenni. Sono laureata in legge. Professione: scrittrice. Per il momento.
Così è cominciata la dichiarazione di quella che fu la First Daughter più celebre della storia d’America. Caroline è la figlia di John e Jacqueline Kennedy.
Le sue foto in bianco e nero, mentre si aggirava nello Studio Ovale della Casa Bianca nel 1961, come in una stanza dei balocchi, fecero il giro del mondo e contribuirono al fascino immortale della “dinastia Camelot”.
Caroline è apparsa come una newyorchese qualunque, in jeans, scarpe da ginnastica e zainetto, per assolvere il suo dovere di cittadina. È stata selezionata attraverso sorteggio per una missione che può toccare a chiunque: membro di una giuria popolare. Roba seria: un processo presso la Corte suprema dello Stato di New York, l’imputato Nelson Chatman è accusato di essere un dealer di crack, una delle droghe più mortali in circolazione.
Caroline ha dovuto passare l’esame che tocca a tutti i giurati, per verificare che non esistano pregiudizi, conflitti d’interessi, o altre ragioni che possano distorcere la serenità della giuria, ed eventualmente portare alla ricusazione.
«No, non sono mai stata condannata per qualche reato», ha continuato Caroline, rispondendo alle domande di rito, nel questionario del procuratore Robert Wainright.
Sempre applicando il questionario standard, le è stato chiesto se lei, o qualche membro della sua famiglia, sia stato vittima di un crimine. Ha risposto di no. Non c’era bisogno di rievocare suo padre John, assassinato il 22 novembre 1963 a Dallas, l’ultimo presidente degli Stati Uniti a morire durante il suo mandato sotto il fuoco di un killer. (Quel precedente era già stato inserito nel suo dossier dal presidente del tribunale, e giudicato non invalidante della sua serenità come giurata).
Quel che Caroline ha ricordato nell’audizione pubblica, è che suo fratello John F. Kennedy Jr. era stato procuratore al tribunale di Manhattan. «Lei parlò mai con suo fratello dei processi in cui era coinvolto?», le ha chiesto l’avvocato della difesa. «No», ha risposto Caroline. «Ne è certa?». «Sì, sono sicura».
Anche qui, nessun riferimento al passato tragico della dinastia: allo zio Robert Kennedy che fu ministro della Giustizia e assassinato anche lui (1968) mentre correva per la nomination alla presidenza; neppure alla fine di quel fratello magistrato, John Jr. morto nel 1999 in un incidente aereo a Martha’s Vineyard.
Caroline non ha fatto una piega quando il procuratore le ha chiesto se nulla le impedirà di assolvere il suo dovere nella giuria popolare, né se «sarà in grado di trovare Chatman colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, qualora le accuse contro di lui siano provate».
Il dovere del giurato è pesante. Ma Caroline Kennedy non ha tentato di accampare scuse per sottrarsi.
Avrebbe potuto trovare delle giustificazioni solide. Il suo nome viene attualmente considerato da Barack Obama e dal Dipartimento di Stato per il posto di ambasciatore in Giappone. Se nominata, Caroline dovrà prima concludere il suo compito nella giuria. In un processo difficile, non privo di rischi: anche in America, quando ci sono di mezzo le gang dei narcos, i giurati possono essere il bersaglio di minacce.
La signora Kennedy, che da bambina ebbe la protezione del secret Service (fino all’età di tredici anni), oggi è una newyorchese come tante, che viaggia in metrò. Insieme con gli altri membri del clan kennediano ha ereditato un patrimonio cospicuo.
Ha ereditato anche, da suo padre e dai suoi zii, una religione civile: il senso dello Stato, del dovere verso la nazione, della responsabilità di ciascuno perché le regole siano rispettate.