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 2013  maggio 28 Martedì calendario

BIRMANIA LE ALTRE SAN SUU KYI

L’effetto esteriore del cambio di regime è pienamente visibile tra le strade assolate e indaffarate di Rangon. Il volto dell’eroina Aung San Suu Kyi campeggia ormai perfino sulle pareti delle nuove shopping mall e nelle hall degli alberghi piene di turisti. Ma nel Paese del potere maschile incarnato dal tatmadaw, il soldato birmano, il suo fiore della pace sempre fresco sui capelli non ha messo a tacere ancora tutti i fucili. Si spara in due Stati etnici, ma anche durante le proteste per paghe e salute nelle fabbriche o per le terre espropriate ai contadini. È l’eredità che la “politica” Aung San Suu Kyi si trova ora a maneggiare in un ruolo di “opposizione partecipativa” (suoi o meglio del suo partito, l’Nld, sono 43 dei 45 seggi andati all’opposizione dopo le elezioni dell’aprile 2012). Ed è in questa fase che molte figure femminili ispirate all’esempio della Lady cominciano a dubitare che la donna uscita da 25 anni di isolamento sia la stessa che fece tremare la giunta militare costringendola a firmare patti col mondo.Tutte le attiviste e intellettuali incontrate in questo viaggio hanno messo per anni in conto anche la morte per un ideale di giustizia, hanno rotto tabù ancestrali come l’ inferiorità femminile nel buddhismo. Hanno agito apertamente o in segreto per aiutare un popolo indifeso e reso ignorante dalla fame. Abbiamo incontrato alcune di loro a Rangon, in questa torrida estate tropicale, al crocevia di un processo personale, politico e sociale delicato rispetto all’eroina che sembra aver retrocesso i diritti umani al secondo posto della sua agenda.
Dopo le critiche interne e internazionali per le sue posizioni ambigue sulla guerra tra birmani e kachin e sulle faide tra buddhisti e musulmani nell’Arakan, Aung San Suu Kyi ha bandito il dissenso interno cacciando un gruppo di delegati dal I congresso dell’Nld. Infine è stata anche contestata in piazza a Monywa, nella sua prima uscita da presidente di una commissione parlamentare voluta dal governo: “in nome del progresso” ha dato il consenso a una miniera di rame dal devastante impatto ambientale. Bawk Jar, una delle più attive nemiche della miniera, è l’unica delle nostre interlocutrici a militare in un gruppo “democratico” oggi apertamente in opposizione alla Lady. Si è candidata infatti nel 2010 con la National Democratic Force (NDF), nato da una costola dell’Nld. Anche se non ce l’ha fatta a battere l’ex alto ufficiale dell’esercito presentato dal partito di governo, si è conquistata la fama di paladina della sua gente, a cominciare dall’ambiente.
«Aung San Suu Kyi sa bene che le terre dei Kachin vengono espropriate per farci dighe, allargare miniere, costruire gasdotti e strade a beneficio dei cinesi. Anche io sono come lei contro ogni violenza, da quando a otto anni ho visto bruciare dai soldati le case del mio villaggio di Lonesan e uccidere o arrestare parenti, amici, vicini. Ma lei sa che i vecchi hanno convinto i giovani a prendere in mano le armi perché non sapevano come altro salvare le nostre montagne e valli». Dopo l’ennesima razzia militare il padre di Bawk Jar, un ex insegnante missionario, decise di dare un’educazione ai figli lontano dalla guerra, e Bawk Jar, oggi 45enne, finì l’università a Yangon mentre il regime domava nel sangue le rivolte studentesche. «Non potevo unirmi alle rivolte e mettere in difficoltà la famiglia che si prendeva cura di me», racconta, «e tacevo anche quando non mi facevano salire sulla barca per la scuola perché ero cattolica. Volevo solo studiare per fare un giorno qualcosa di concreto per la mia gente». Dopo una carriera da agente immobiliare acquistò addirittura una miniera d’oro, simbolo dello sfruttamento umano e ambientale. Ma fu proprio scoprendo le condizioni miserabili dei figli dei minatori che si decise a “scendere in campo”: prima costruì per loro delle scuole offrendo cibo e visite mediche, poi estese l’assistenza ai rifugiati Kachin in fuga - come fu lei - dalle battaglie. Il regime prese a tenerla d’occhio quando si mise a scrivere lettere su lettere di denuncia all’ex dittatore birmano Than Shwe e alla magistratura. Chiedeva di salvare dalle ruspe una delle Valli più fertili del suo Stato, la Hugawng, dove si trova il corridoio di foreste attraversato dalle poche tigri sopravvissute in Birmania, e di compensare i contadini espropriati dalle grandi compagnie protette dai militari. Uscita da un breve periodo di clandestinità dopo le accuse di fomentare disordine sociale - nel pieno delle riforme democratiche - non ha più avuto remore a candidarsi sia contro i generali sia contro San Suu Kyi. «Il candidato del partito di governo aveva progettato di uccidermi, ma non c’è stato bisogno, ha vinto lui...», commenta.
Di natura diversa ma forse più bruciante per la Lady è la critica di Ma Thida, 46 anni, chirurgo con la passione per la letteratura e il giornalismo. Anche lei proveniente da una minoranza etnica - Shan e Mon - ma cresciuta a Rangon nella famiglia di un contabile, è stata una delle selezionate compagne di viaggio di Aung San Suu Kyi durante l’esaltante campagna elettorale del 1990, quando l’NLD vinse l’80 per cento dei seggi nel Parlamento, poi dissolto dai generali. A quel tempo studiava ancora Medicina, ma aveva già scritto parecchi racconti ispirati alla dura vita di contadini, minoranze, cittadini e intellettuali come lei sotto il regime.
Oggi Thida rappresenta la nuova generazione di pensatori indipendenti e spesso scettici sul nuovo corso scelto dall’Nld. In uno dei suoi libri di memorie divenuti popolari, Sunflower, ammoniva in tempi non sospetti dal pericolo di rendere la leader dell’opposizione “schiava degli applausi”, concentrando su di lei tutte le aspettative di milioni di birmani in cerca di democrazia. A permetterle tanta schiettezza è il passato di ex prigioniera politica, una condanna a 20 anni ricevuta nel ’93 e 6 anni di isolamento conclusi con una devastante tubercolosi. «L’obiettivo dei nostri sacrifici», ci dice, «non può essere soltanto, come dicono tutti, un sistema multipartitico. Alla Birmania serve un vero federalismo, reale autonomia degli Stati dal potere centrale. Invece governo e opposizione sono entrambi vittime della sindrome dell’accentramento creata nelle epoche coloniali, e le assemblee regionali sono diventate strumenti dei governi, nazionale e locale, dominano il sistema giudiziario e politico. Per questo nelle periferie dell’Unione la gente pensa che la democrazia sia un obiettivo ancora ben lontano».
Thida non fa sconti nemmeno ai giornali di opposizione, da poco ha aperto una sua rivista chiamata Indipendente, viaggia per il mondo a ritirare premi o a parlare di Birmania, scrive romanzi e racconti ai quali dedica buona parte del suo tempo di donna nubile, mantenendo intanto il lavoro di chirurgo.
Myint Myint Khin Pe, 52 anni e due figli, fa la volontaria nella piccola ma efficiente struttura costruita dal marito, un attore famoso. Lei è l’anima dell’ormai celebre “Free funeral service”, le esequie gratuite per i più poveri che non possono permettersi bare e cremazioni rituali, una vera rivoluzione in un Paese dove chi sta a contatto coi morti è visto con superstizione, e dove pochi possono permettersi di dare dignitosamente l’estremo saluto ai propri cari.
Nella sala dove ci illustra i risultati raggiunti in dieci anni (2880 funerali gratis nel 2001, quasi 15 mila nel 2011 con l’uso no-stop di 20 carri funebri), i telefoni squillano in continuazione e i centralini spediscono nel giro di un’ora gli autisti ovunque richiesto. All’inizio al volante c’erano solo suo marito - già famoso per i suoi film - e lei, la prima donna birmana a trasportare casse da morto. Andando a prelevare i cadaveri dei poveri, la benestante figlia di un ufficiale governativo scoprì che molti morivano per la mancanza di una minima educazione sanitaria, per aver infezioni intestinali contratte dall’acqua contaminata o per malnutrizione, diffusa soprattutto tra i bambini. Così, sotto il regime che vietava i libri, ha iniziato un programma di informazione e di biblioteche gratuite nelle scuole elementari, mentre clandestinamente curava i dissidenti nella sua prima clinica gratuita. Da qui le nottate nelle stazioni di polizia, le intimidazioni, il ritiro del passaporto e il distacco forzato dai suoi figli per 5 anni. È stata fortunata rispetto a militanti di base della prima Lega della democrazia come Su Su Nway, 41 anni e un matrimonio celebrato da poco con uno dei leader del leggendario Movimento studentesco dell’88, domato a suo tempo nel sangue. Su Su è nata in una famiglia contadina di Kawhmu, nel delta disastrato dal ciclone Nargis dove Aung San Suu Kyi è stata eletta lo scorso anno a furor di popolo in Parlamento. Aveva 17 anni quando distribuì alle tre di mattina in tutte le case fasci di volantini scritti di notte a mano contro il lavoro forzato nei campi dei padroni, quasi sempre generali e ufficiali. Molti attivisti e la sua eroina, San Suu Kyi, giacevano già in prigione per imprese analoghe, i suoi compagni erano stati cacciati da scuola e la sua famiglia minacciata di ripercussioni.
Da allora ha passato molti anni a imparare come difendere contadini e operai facendo applicare le leggi esistenti, e nel 2004 vinse assieme all’Organizzazione mondiale del Lavoro un contenzioso contro il governo, con un coraggio che le costerà «il primo anno e mezzo di galera», come ci racconta. «L’ha fatto Aung, posso farlo io», mi dissi. «Sono stata riarrestata due volte, l’ultima durante la Rivoluzione dei monaci, condannata a 12 anni e spedita in una prigione ai confini con l’India e le zone malariche. Dopo il rilascio nel 2011 assieme a molti altri ex detenuti politici ho incontrato lavoratori in sciopero che non sapevano come condurre una trattativa. Non mi competeva, ma Aung mi autorizzò a occuparmene: scrivemmo le richieste, dagli aumenti di paghe miserabili al diritto all’acqua pulita da bere, e a riso non marcito, assicurazioni contro le malattie di lavoro e così via. Era la prima lotta del genere dopo le aperture, e andò avanti duramente. Ma quell’esperienza migliorò almeno un poco le condizioni dei lavoratori e pose le basi per altri sindacati, gli operai elettrici, i pescatori e le ciurme delle petroliere».
«Io non prendo stipendi, e ho finora speso solo i miei soldi, anche se ricevo cibo o donazioni da qualche contadino ricco. Siamo pochi a occuparci di far rispettare le leggi che non si applicano perché i sindacati hanno controparti potenti nelle associazioni dei proprietari. Ci vorrebbero molte persone preparate alla nuova fase, e per questo ho offerto ad Aung San Suu Kyi un progetto di addestramento in materie di terra, lavoro forzato e fabbriche. La sua risposta sarà decisiva per capire se le cose potranno cambiare davvero». «Ottimista? Non so», sorride, «aspettiamo e vediamo».