Marco Albino Ferrari, La Stampa 28/5/2013, 28 maggio 2013
QUANDO HILLARY CREO’ LA LEGGENDA DEL TETTO DEL MONDO
La notizia, dati i tempi e soprattutto il luogo dal quale proveniva, uscì con qualche giorno di ritardo. Giunse alle redazioni nella tarda primavera di sessant’anni fa, e fu subito chiaro che sarebbe rimasta nella storia. Katmandu: il 29 maggio due uomini hanno conquistato l’Everest, sono Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norgay. Il mattino del 2 giugno il «Times» di Londra riportò in esclusiva il racconto della salita. Era lo stesso giorno dell’incoronazione della regina Elisabetta II. L’Union Jack, si disse, sventola allegra su Buckingham Palace e sulla cima del mondo.
Si chiudeva così un’avventura iniziata un secolo prima, e poco importava ai sudditi della nuova regina che Hillary fosse neozelandese (britannica era la spedizione di cui faceva parte). Era lui, Hillary, il portatore dei valori della corona, dello stile british che fa spallucce al pericolo, che si pone obiettivi alti e, caschi il mondo, li raggiunge con misurato autocontrollo. Era lui ad aver raccolto il testimone che di generazione in generazione passava tra i più celebri scalatori del mondo. D’altronde l’alpinismo parlava inglese fin dalle origini: non erano stati proprio gli inglesi ad aver conquistato il Cervino e ad aver dato il nome alla montagna più alta della terra?
La storia dell’Everest (Chomolungma in tibetano, Sagarmatha in nepalese) prese avvio già nella prima metà Ottocento, quando a capo del servizio topografico britannico si dibatteva tra numeri e rilevazioni trigonometriche un uomo il cui nome avrebbe avuto un radioso futuro, almeno su carte geografiche e mappamondi: sir George Everest. Nel 1852, secondo i calcoli dei matematici del Survey of India, si capì che quel vago bitorzolo colto dall’osservatorio di Dehra Dun, a centinaia di chilometri, rappresentava il culmine delle biancheggianti creste ai confini settentrionali del subcontinente indiano. È la montagna più alta della Terra: 8840 metri (poi corretti in 8848). Cifra favolosa, che inebriava lo spirito positivista del tempo tutto teso al fascino emanato dai numeri e dalle qualità misurabili. Il Tetto del Mondo era stato raggiunto grazie a sofisticati strumenti ottici e calcoli matematici, e in un futuro più o meno lontano i britannici avrebbero dovuto calpestarne la cima. Ma l’avveniristica impresa presentava difficoltà insormontabili. E non solo da un punto di vista tecnico-alpinistico. A quelle quote mai nessuno aveva mirato (bisognerà aspettare il 1895 quando l’inglese Albert Mummery tentò, morendo tra i ghiacci, la salita agli 8125 metri del Nanga Parbat), e c’erano soprattutto impedimenti logistici senza apparente soluzione.
All’epoca il regime del Nepal negava fermamente l’accesso agli occidentali, e solo una lunghissima azione diplomatica sullo scacchiere asiatico avrebbe permesso ad alpinisti britannici, nel 1920, di mettere piede in Tibet, sul lato nord della montagna. Intanto in patria si erano unite le forze fra Alpine Club, Royal Geographical Society e pezzi dell’esercito, dando vita a un apposito organo esecutivo, la Mount Everest Committee. E la prima carovana esplorativa partì nel 1921 inaugurando una serie di vere e proprie spedizioni su un modello paramilitare che dissolsero fiumi di sterline, e alcune vite umane. Come quelle di George Mallory e Andrew Irvine.
I due tentarono la salita lanciandosi ad altissime quote con attrezzature e indumenti all’epoca ancora inadeguati, e vennero intravisti l’ultima volta da un cannocchiale puntato a 8450 metri. Di loro non si seppe più niente. Avevano veramente raggiunto la cima, o erano caduti dalla cresta sommitale poco dopo l’avvistamento? Il corpo di Mallory fu trovato nel 1999: era stato conservato dal ghiaccio, ma niente di quelle membra gelate poteva rivelare se veramente avesse conquistato il Tetto del Mondo.
Nel Dopoguerra, grazie all’apertura delle frontiere del regno del Nepal, gli assedi partirono dal versante sud, e furono gli svizzeri questa volta a sfiorare la vittoria. Nella stagione premonsonica del 1953, appariva ormai chiaro che la conquista della cima fosse nell’aria. Tutto era pronto. E infine, a dare la notizia, fu una voce inglese, poi rilanciata in un’infinita eco da tutti i giornali del mondo. «L’Everest era un’immensità senza confini, proprio perché non conquistato. Oggi l’incanto è rotto, oggi siamo sicuri che la cima favolosa è fatta come tante altre, che non vi abitano gli dei della montagna», commentò l’alpinista-scrittore Dino Buzzati, sulle pagine del «Corriere della Sera», mirando il suo sguardo sulla potenza simbolica di quei passi che avevano calcato il piccolo bitorzolo di ghiaccio più alto del mondo. «È insomma cominciata la sua storia ma è finita per sempre la sua leggenda. E adesso? Che resta più da fare?», concluse Buzzati. Aveva ragione solo in parte: una volta aperta, la via dell’Everest avrebbe risvegliato nuovi sogni ancora tutti da vivere.