Elena Dusi, la Repubblica 28/5/2013, 28 maggio 2013
PIANTE IL SEGRETO DELLA VITA SCOPERTO TRA I GHIACCI
La vita rispunta anche dal ghiaccio. Non sono bastati 400 anni di ibernazione a spegnere la linfa di alcune piantine di muschi ed epatiche diffuse nell’Artico. Con il ritrarsi del ghiacciaio canadese sotto al quale erano rimasti sepolti, gli steli e le foglie di queste specie appartenenti alla divisione delle briofite - i primi vegetali ad adattarsi alla terraferma nella storia della vita sul pianeta - sono tornati a distendersi alla luce del sole pallido del Polo.
Gli scienziati dell’università canadese dell’Alberta hanno visto le piante crescere fra le rocce artiche come se si fossero addormentate solo il giorno prima, e non quattro secoli fa. L’esperimento, ripetuto in laboratorio, ha dato risultati uguali. Dal momento che ogni singola cellula di queste arcaiche specie vegetali è in grado di ricostituire l’intero organismo, sui vetrini del laboratorio di biologia di Edmonton sono tornate a rivivere sette specie ibernate di muschi, rimaste sepolte sotto al ghiacciaio canadese chiamato Teardrop (cioè “lacrima”) durante la Piccola Era Glaciale: epoca compresa tra il 1.550 e il 1.850. I risultati, e le foto delle piantine tornate alla vita, sono pubblicati oggi sulla rivista Pnas.
I ricercatori canadesi, guidati da Catherine La Farge, oltre a dirsi stupiti per la resistenza della vita in condizioni così estreme, suggeriscono che lo studio delle piante riemerse dal ghiaccio «può aiutare a capire lo sviluppo di organismi viventi in ambienti extraterrestri». E in effetti i muschi del ghiacciaio Teardrop non sono l’unico esempio di esseri viventi resuscitati dal gelo, in particolare dalla Siberia, dagli altopiani del Tibet o dalla Groenlandia. Per restare nel regno delle piante, un fiorellino bianco che vive nell’Artico è sbocciato dopo 32mila anni di inerzia. Il suo seme era rimasto nascosto insieme a centinaia di altri nella tana di uno scoiattolo, nella tundra siberiana, ritrovato e aiutato a germinare a febbraio dell’anno scorso in un laboratorio dell’Accademia Russa delle Scienze.
Alla base di tutte queste scoperte c’è la riduzione delle superfici ricoperte dai ghiacci. Il Dna più antico recuperato dal gelo risale a 60mila anni fa. Troppo recente per pensare di clonare un dinosauro. Ma abbastanza per sequenziare il genoma di mammut, orsi delle caverne e rinoceronti lanosi. Nel caso degli antenati degli elefanti il Dna ritrovato è talmente abbondante e conservato da permettere ai ricercatori di ricreare l’emoglobina dei giganteschi animali. All’università di Adelaide, nel 2010, hanno ricostruito il gene incaricato di sintetizzare questa componente del sangue (che nel caso del mammut è dotata di un “antigelo” speciale per restare liquido a temperature proibitive). Il frammento di Dna è stato poi inserito in un batterio e il microrganismo ha iniziato a secernere emoglobina del Pleistocene.
Anche se un gruppo di scienziati giapponesi ha annunciato di voler clonare un intero mammut da qui al 2018, l’impresa non sembra realistica. Bisognerebbe usare il Dna recuperato dai ghiacci per clonare un esemplare del mastodonte e poi impiantare l’embrione nella pancia di un elefante: unico animale in grado (forse) di sopportare una gestazione così gravosa. Esperimenti simili sono stati tentati con due specie estinte da poco: la capra dei Pirenei e la rana australiana. Ma in entrambi i casi gli esemplari clonati hanno vissuto solo pochi minuti.