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 2013  maggio 28 Martedì calendario

DALLA SIDERURGIA A CHIMICA E FARMACEUTICA COSÌ IN TRENT’ANNI È SPARITA L’INDUSTRIA ITALIANA

MILANO — I guai con lo spread finanziario li abbiamo (temporaneamente) accantonati. L’Italia del caso Ilva però, è costretta a fare i conti con problema forse peggiore: lo spread industriale che ci separa dal resto d’Europa e che ha divorato in pochi decenni come un buco nero interi pezzi della grande manifattura di casa nostra. Il bollettino di guerra degli ultimi 30 anni di imprenditoria tricolore, su questo fronte, è una via crucis che sa di Caporetto: il sogno della grande chimica nazionale è naufragato con il pasticciaccio Enimont a metà degli anni ’90, con una triste svendita ai concorrenti stranieri. Lo stesso destino è toccato alla farmaceutica di Carlo Erba & C., spazzata via in un decennio dai giganti esteri che poi – come prevedibile – hanno portato fuori dalla penisola produzione e ricerca.
«Non dobbiamo fasciarci la testa. L’Italia, grazie alle Pmi, è ancora la seconda realtà manifatturiera d’Europa», si consola Giulio Sapelli, professore di Storia dell’economia alla Statale di Milano e fresco autore di “Elogio della piccola impresa”. Sarà. Molte delle nostre eccellenze nazionali però sono state affossate da uno Stato allergico alla pianificazione industriale e da un capitalismo senza troppi capitali, puntellato per decenni da “nocciolini duri”, patti di sindacato e dalla logica autoreferenziale del “salotto buono”. Abbiamo (quasi) perso la cantieristica sottovalutando il boom delle crociere. Pubblico e privato – legati in un deleterio groviglio armonioso – hanno messo ko l’ex-acciaio di Stato. La gestione statale è costata 15 miliardi di perdite in 15 anni nell’era Iri. Poi gli imprenditori di casa nostra hanno completato l’opera, finendo in molti casi per girare altiforni e fabbriche ai nuovi ricchi in arrivo da India e Russia. Il corollario di questo doppio ko sono le decine di migliaia di posti di lavoro persi per strada visto che la sola Finsider a fine anni ’80 impiegava più persone di quanti lavorino oggi nella siderurgia italiana.
«L’altra grande occasione persa è stata quella delle privatizzazioni, finite in un maxi-spezzatino per massimizzare le entrate finanziarie », ricorda Sapelli. Francia e Germania hanno approfittato delle cessioni pubbliche per “pilotare” la creazione di grandi campioni nazionali. Noi no. È vero che le dismissioni di Stato di Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi ci hanno consentito di agganciare in extremis il treno dell’euro nel 2000. Ma tra debiti accumulati per le acquisizioni, casse spremute a favore dei soci e scarsa lungimiranza imprenditoriale, la ex-grande impresa di Stato ha perso molto del suo smalto. Nel 1999 Telecom era al 50esimo posto nella classifica Forbes per le aziende più grandi del mondo. Oggi è scesa al 586esimo. Otto anni fa nei primi 150 posti di questa graduatoria c’erano sette realtà tricolori (di cui sei nate nell’orbita delle partecipazioni pubbliche). Nel 2012 sono rimaste solo Eni ed Enel. E forse non è un caso se da quell’anno la manifattura nazionale – complice anche la crisi – ha perso il 20% della sua capacità produttiva.
La fotografia del tessuto industriale dell’Italia Spa è lo specchio fedele di questa metamorfosi. La chimica pesa oggi solo il 4,9% del valore aggiunto della nostra economia, quasi la metà della media europea. Elettronica e computer sono al 2,9% contro il 5,8% continentale. Male anche l’auto (3% contro 8,8%) dopo le delocalizzazioni della Fiat e la farmaceutica. Per l’Ilva – sospesa tra intervento dello Stato e arrivo di nuovi soci privati – il rischio è che vada in onda lo stesso copione vissuto dagli altri big di casa nostra, finiti spesso per passare in mani straniere. Ma vista l’ultima esperienza delle gloriose cordate tricolori – quella nata sotto la benedizione di Silvio Berlusconi per salvare l’Alitalia – forse è addirittura meglio così.