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 2013  maggio 27 Lunedì calendario

TURCHIA, FRENATA CONTROLLATA PER EVITARE LA “BOLLA” E MOODY’S LA PROMUOVE NEL GIRONE DEI GRANDI

Istanbul La finanza corre più veloce della politica. E regala alla Turchia l’”aggancio” all’Europa. Mentre Bruxelles fatica a far procedere la procedura di ingresso di Ankara (in otto anni la burocrazia comunitaria ha smaltito solo uno dei 35 capitoli di adesione), la Mezzaluna ha fatto da sé, entrando nel Vecchio Continente dalla porta – non proprio di servizio – del rating: Moody’s questa settimana ha promosso a “investment grade”, togliendo dal limbo delle obbligazioni spazzatura il voto sul debito del paese. La pagella dell’agenzia di valutazione Usa è, allo stato, la fotografia più fedele del successo del dogma della “crescita sostenibile” imposto dal Primo ministro Recep Tayyp Erdogan: il rapporto debito/ Pil è sceso dal 2009 del 10% ed è calato al 36%. Numeri che nel disastrato Vecchio continente non si può permettere quasi nessuno. Il boom del 2010-2011, quando l’economia nazionale è cresciuta a tassi appena inferiori al 10% è stato cavalcato dal ministero delle finanze per mettere in sicurezza – se mai ce ne fosse stato bisogno – i conti dello stato: la vita media del debito è salita da 4,6 a nove anni e l’esposizione in valuta, un fattore di rischio potenziale vista la volatilità della lira, è crollata dal 43,3% del 2003 al 27,4% dello scorso dicembre. Una bolla? «No, il risultato di una crescita sostenuta, costante e sostenibile – dice Gohkan Baykam, ammnistratore
delegato di Relight, gruppo delle energie rinnovabili molto attivo sia in Turchia che in Italia – dove l’economia reale non è trainata solo dalla domanda interna e dagli investimenti infrastrutturali ». Un boom accompagnato da una serie di riforme strutturali – come gli interventi sul risparmio, la competitività, l’energia, la corporate governance e il sistema pensionistico – che si è meritato l’applauso di Moody’s convinta proprio da questi interventi a promuovere il paese. Il problema – in Turchia come in Europa – è in questo momento quello della crescita. Ma su due versanti opposti. Il vecchio continente non sa dove trovare i soldi e le idee per rilanciarla ed esorcizzare lo spettro della disoccupazione. Ad Ankara è l’opposto. Dopo due anni al galoppo la Banca centrale ha orchestrato un intervento monetario per evitare il surriscaldamento dell’economia. E il forte calo del pil del 2012 – sceso a un + 2,2%, un quarto del 2011 – è figlio più di questo intervento artificiale che di un segno reale di stanchezza. «Forse abbiamo schiacciato troppo il freno», ha detto nei giorni scorsi il ministro dell’economia Zafer Caglayan. Ma è bastato il taglio dei tassi al 4,5% deciso dal governatore Edrem Basci pochi giorni prima della decisione di Moody’s per far ripartire all’istante tutti gli indicatori macro verso l’alto. «C’è grande vitalità. Ogni volta che arrivo ad Istanbul mi trovo sul tavolo decine di dossier e di proposte di investimento e di partnership», dice dal suo pragmaticissimo laboratorio di imprenditore Baykam. Il governo ha lanciato il progetto («folle», dice Erdogan) del nuovo canale artificiale navigabile da 50 km. per decongestionare il Bosforo, ha rivoluzionato l’agenda energetica per ridurre la dipendenza da idrocarburi – varando il piano nucleare e il piano per ventimila Mw di eolico entro il 2023 – e sta lavorando per fare di Istanbul il polo finanziario alternativo alla City da una parte e a Dubai dall’altra. L’Italia sta provando a cavalcare l’onda: «Siamo complementari – assicura Baykam – abbiamo una grande opportunità per sfruttare assieme gli spazi che si stanno aprendo nell’area dopo la Primavera araba». L’instabilità geo-politica mediorientale, i rischi di un irrigidimento confessionale del governo di Ankara non hanno spaventato le aziende del Belpaese: in sei anni il numero delle imprese tricolori attive in Turchia è raddoppiato. E la Mezzaluna contribuisce per 5,4 miliardi alla nostra bilancia commerciale, in seconda posizione dopo gli Usa tra i paesi al di fuori della Ue. La promozione di Moody’s aggiunge ora nuovo carburante alla crescita: i 72 miliardi di investimenti esteri nel debito nazionale (un record) potrebbero salire ancora dato che l’ingresso nel paradiso dell’investment grade consente a molti fondi di iniziare a comprare titoli di stato turchi. Il rischio latente è un ulteriore apprezzamento della lira. Ma il taglio dei tassi deciso da Basci, almeno per ora, ha esorcizzato anche questo spettro.