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 2013  maggio 27 Lunedì calendario

«MI ATTACCANO, MA IO I SOLDI LI HO INVESTITI» —

Emilio Riva è un uomo vecchio, solo, malato. E prigioniero. Uno che sente il tempo finire, più che passare. Agli arresti domiciliari nella sua villa di Malnate (Varese) vive i giorni fra letto e giardino, pochi passi alla volta perché la malattia gli sta consumando le ossa e ogni movimento è diventato una montagna da scalare.
L’Ilva è lontana quasi mille chilometri. «Quando sono arrivato io era un ferro vecchio» ricorda lui al suo avvocato e amico Marco De Luca. Era il 1994, l’anno in cui l’Iri di Romano Prodi decise di vendere l’allora Italsider. «Me la sono presa che era un disastro, l’ho rinnovata e oggi è ancora un arnese perfettamente funzionante nonostante tutto» ripete sempre il «ragiunatt», il ragioniere, come lo chiamavano gli amici di un tempo. Quel «tutto» fa la differenza fra le stelle e la polvere. Sono anni di indagini, di accuse, di sequestri, arresti, indagati... Il capitano d’industria che nel 1954 cominciò a commerciare rottami con il fratello Adriano e che da quasi vent’anni è il primo produttore italiano d’acciaio, oggi legge il suo nome soltanto accanto a un elenco infinito di reati: dal disastro ambientale all’avvelenamento di sostanze alimentari, dalla truffa al riciclaggio, dall’associazione a delinquere all’omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. «Mi aggrediscono ingiustamente da ogni parte, è inaccettabile» protesta lui con De Luca. «Ma cosa ho fatto di male? Ho investito una marea di denaro, e adesso guarda a che punto siamo arrivati...».
Siamo arrivati al maxi-sequestro di otto miliardi e cento milioni di euro chiesto dal gip di Taranto Patrizia Todisco e siamo al sequestro eseguito dai magistrati di Milano, un altro miliardo e duecento milioni. «È pazzesco. Anche questa storia del miliardo e due a Milano: è assurdo, erano soldi guadagnati all’estero e riportati in Italia in parte per essere investiti nell’Ilva».
Nella sua villa del Varesotto, il patron dell’acciaieria più grande d’Europa non ha il permesso di vedere nessun altro che il suo domestico, i medici e l’avvocato. Da luglio, quando il giudice ha deciso per lui i domiciliari, vede con il contagocce anche i suoi sei figli, uno dei quali (Nicola) è agli arresti a casa da mesi. Fabio, l’altro figlio, è latitante in attesa di estradizione a Londra. «Certe volte mi sembra che sia tutto un incubo, mi dico che non ci può essere qualcuno che ci vede così malvagi» si sfoga Emilio con l’amico avvocato. È depresso, l’uomo che ha costruito l’impero del «Gruppo Riva». Perché è da quasi un anno che non gli arriva una sola buona notizia dalla sua azienda, fra le prime dieci al mondo per produzione d’acciaio. Niente più pace da quando il giudice Todisco ha sequestrato gli impianti a caldo dello stabilimento di Taranto e ha acceso la miccia dello scontro giudiziario con la proprietà. E che per favore non si dica «padroni». «Attento alle parole. A me la parola padrone non piace. Non sono nemmeno padrone di un cane. Sono un datore di lavoro» disse Emilio ad Antonio Calabrò in uno dei venti colloqui di «Intervista ai capitalisti». L’avvocato De Luca dice che ha sempre avuto «un sacro rispetto» per i suoi lavoratori e che «è un uomo che ha dato da mangiare a 40 mila persone per decenni: basterebbe questo per avere meriti sociali e invece lo stanno facendo a pezzi».
Dalla sua prigione d’oro «il vecchio», come lo chiamano in azienda, quando parla dell’Ilva ci tiene a dire che «mai ho lasciato a casa un operaio» e che «io le aziende non le ho mai chiuse nemmeno quando non andavano bene come in questi ultimi anni». Lo stabilimento di Taranto è in perdita da due-tre anni o forse più, «ma io ho sempre continuato a mantenere dritto il timone dell’occupazione, anche in periodi di crisi come questo». Il patron discute delle vecchie gloria e dei guai di oggi, ricorda episodi e amarezze, parla senza rabbia ma con quel senso di «logoramento», per dirla con le parole di De Luca, che «certo ha influito sul suo stato di salute oggi davvero traballante». Ha in tasca un nuovo permesso di ricovero, Emilio Riva. È un «sorvegliato speciale» per cardiologo ed oncologo. Magari qualcuno a mille chilometri di distanza lo sta maledicendo perché lo crede responsabile di morte e malattia per l’inquinamento dell’Ilva. «Ma io non sono un assassino di bambini» dice lui da sempre. Sperando di poterlo dire ai tarantini guardandoli in faccia. Da uomo libero.
Giusi Fasano