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 2013  maggio 26 Domenica calendario

I NOSTRI FOLLOWER NON SONO SEGUACI

All’età di tre anni mio figlio non sopporta di vedermi in tv. Si arrabbia. Urla: «Perché papà non mi parla?». Il fatto è che ha già conosciuto Skype. Per lui uno schermo è qualcosa con cui si parla, che risponde e dialoga, non una cosa stupida come la tv con cui non si può comunicare. È nato interattivo.
L’esperienza familiare mi è venuta alla mente leggendo delle star degli old media che hanno preso cappello per gli insulti ricevuti in Rete. E mi sono chiesto: non sarà che noi che scriviamo sui giornali, conduciamo programmi televisivi, pubblichiamo libri, non siamo abituati ad ascoltare ciò che ne pensano i nostri fruitori? Magari anche tra chi ci legge o ci vede in tv ce ne sono tanti che, come mio figlio, vorrebbero risponderci; solo che non possono. Così che, appena ci affacciamo su un social network dove invece si può, si sfogano.
Forse l’incomprensione nasce dal modo in cui traduciamo la parola follower. Forse non vuol dire seguaci, ma segugi. Follower non equivale a fan, e neanche ad audience. Il numero di lettori-ascoltatori, in cui specchiamo il nostro ego di comunicatori e sul quale basiamo le nostre tariffe professionali, non è necessariamente equivalente al loro gradimento. Twitter lo svela. Il conflitto tra old media (chi è abituato a comunicare in maniera unidirezionale, cioè a parlare solo lui) e new media (chi è abituato a conversare in maniera pluridirezionale, cioè a rispondere) è epocale, e comincia a manifestarsi nella sua irriducibilità. Se dà fastidio affrontarlo, l’unica è accettare di essere troppo old per passare le serate colluttando con i new, e astenersi. Informare e conversare sono due attività molto diverse.
Invece le persone «popolari» tendono a usare Twitter più per amplificare la loro popolarità che per conversare. Ce lo dice il numero dei following: pochi, in casi estremi nessuno. Le celebrità dell’informazione sono di solito molto seguite ma seguono poco. Nella migliore delle ipotesi fanno del mezzo un uso ludico, per sentirsi up-to-date, divertirsi e ingannare il tempo in attività di lavoro, come il giornalismo o la politica, piene di lunghi momenti di noia. Di recente Matteo Renzi ha annunciato di aver deciso di disintossicarsi da Twitter, come se fosse un videopoker. Mentre la conversazione non può dare assuefazione, non si può smettere di conversare come si smette di fumare. Per chi segue, infatti, la conversazione è tutto. Per molti follower Twitter è la prima occasione nella vita di farsi ascoltare nella «sfera pubblica» habermasiana. La prendono maledettamente sul serio. Il vip scherza, il follower no. Può finire a insulti. Il fatto è che Twitter costringe le persone popolari a frequentare di persona il popolo: qualcuno può provarne disgusto.
Ma c’è anche un’altra terribile verità da scoprire, per noi broadcaster del Novecento: la ribellione contro le élite e l’establishment ci riguarda. Per quanto l’abbiamo potuto coccolare, vezzeggiare, cavalcare, giustificare, nella nostra attività di comunicatori, il gigante dell’opinione pubblica non fa differenze quando si infuria. Oggi è mosso da una irrefrenabile rabbia contro il potere, e il quarto e il quinto sono messi nel mazzo al pari dei primi tre. I troll, specie di teppisti della Rete che vanno in giro a sfasciare bacheche e account telematici come i black bloc sfasciano vetrine e bancomat reali, non ci fanno sconti per quanti noi ne abbiamo potuto fare a loro quando se la prendevano con politici e banchieri. Il grado di divisione e di odio che si è diffuso nella società italiana è più preoccupante di quanto abbiamo sperato raccontandolo come il nostro datore di lavoro. Perché è vero ciò che scrive Saviano, che gli insultanti vivono di luce riflessa degli insultati; ma è pur vero che anche noi viviamo di luce riflessa del nostro pubblico, quando ci adora e anche quando ci insulta: solo grazie a loro facciamo notizia.
Antonio Polito