Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 26/05/2013, 26 maggio 2013
DAL SEMINARIO AL POTERE PARABOLA DI UN RIVOLUZIONARIO
Sfogliando casualmente una rivista, sono incappato in un personaggio di cui non conoscevo l’esistenza (certamente non è l’unico). Si tratta del politico francese Emmanuel-Joseph Sieyès che abbracciò la carriera ecclesiastica e divenne una delle personalità di spicco della Rivoluzione Francese, dedicando il suo impegno a favore del Terzo Stato. Con la sua battaglia contro i privilegi di Nobiltà e Clero, la «casta» dell’epoca, pare che riuscì a ottenere, oltre due secoli fa, quel successo per il quale noi continuiamo a batterci inutilmente.
Attilio Lucchini
attiliolucchini@hotmail.it
Caro Lucchini, un Dizionario dei rivoluzionari, se esistesse, dovrebbe riservare un particolare settore a quelli che provengono dalle scuole religiose, dagli istituti ecclesiastici o dal sacerdozio. Vi sarebbero, cito qualche nome alla rinfusa, Joseph Fouché, insegnante di latino e matematica in alcuni collegi religiosi, Charles Maurice de Talleyrand Périgord, vescovo di Autun, Francesco Crispi, studente del Seminario greco-albanese di Palermo, Iosif Stalin, studente del Seminario spirituale di Tiflis, Fidel Castro, allievo dei gesuiti dell’Avana, alcuni teologi della liberazione e naturalmente Emmanuel-Joseph Sieyès.
Nacque nel 1748, fu canonico in Bretagna nel 1775, vicario generale e cancelliere della chiesa di Chartres nel 1784, deputato del Terzo Stato (la borghesia) agli Stati generali; e sarebbe divenuto vescovo metropolitano di Parigi se non avesse deciso di fare una carriera pubblica nell’Assemblea nazionale e più tardi nella Convenzione. Fu il politologo della rivoluzione, l’uomo che scrisse il giuramento del Jeu de Paume con cui il Terzo Stato si separò dalla nobiltà e dal clero per divenire protagonista del grande movimento riformatore. Nei suoi pamphlet (fra cui il più noto è, per l’appunto, Che cosa è il Terzo Stato?) fissò le regole della rappresentanza popolare, definì l’unità e l’indivisibilità politica della nazione, si batté perché il deputato non fosse legato, come nell’Ancien Régime, da un mandato imperativo o dalla «Volontà generale» teorizzata da Jean-Jacques Rousseau. Non fu paladino della violenza, ma votò per la morte di Luigi XVI «senza rinvio e senza appello».
Gradualmente, durante il Terrore, cominciò tuttavia a spostarsi verso il centro dell’aula, dove sedevano quelli che oggi chiameremmo «centristi», e dopo la morte di Robespierre disegnò sul modello inglese il sistema costituzionale del Direttorio sedendo nella prima delle sue due Camere. Ma quando tornò in patria dopo una breve missione a Berlino, il teorico della rappresentanza popolare ebbe l’impressione che il Paese stesse precipitando nel caos e giunse alla conclusione che soltanto un dittatore, in quel momento, avrebbe potuto salvare la Francia. Fu l’alleato di Bonaparte nel colpo di Stato del 18 Brumaio e, come presidente della prima Camera nel giorno scelto dai congiurati, ne fu per molti aspetti l’esecutore. Non volle essere un ingranaggio della macchina napoleonica e recitare una parte nell’amministrazione imperiale, ma accettò da Napoleone un dono in denaro, una proprietà terriera, un titolo nobiliare, la Gran Croce della Legione d’Onore. E nel 1814, dopo Waterloo, mentre i Borbone rientravano in patria, fu tra coloro che votarono per la destituzione di Bonaparte. Nel Dizionario dei rivoluzionari quindi il nome Sieyès dovrebbe essere inserito anche in un altro settore, non meno affollato: quello dei politici che nascono a sinistra e muoiono a destra.
Sergio Romano