Sergio Romano, Corriere della Sera 26/05/2013, 26 maggio 2013
I PIONIERI DELLE PRIMAVERE ARABE IN BILICO TRA CORANO E DEMOCRAZIA —
La Tunisia ha un primato di cui è orgogliosa. E’ il Paese che ha acceso la scintilla delle rivolte arabe, si è sbarazzata del suo tiranno in meno di due mesi, ha riscaldato i cuori di tutti i giovani della regione. Senza l’esempio tunisino non vi sarebbero stati al Cairo i moti di piazza Tahrir e quasi contemporaneamente le grandi manifestazioni algerine, marocchine, libiche. Quando il giovane Mohammed Bouazizi si dette fuoco di fronte al municipio di Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010, il gesto sembrò quello di un povero ragazzo che non riusciva a trovare lavoro, vendeva verdura con un carretto ed era continuamente tartassato dalla polizia. Sembra che una poliziotta l’avesse schiaffeggiato e che Mohammed, disperato e umiliato, abbia messo in scena la propria morte come gesto di estrema protesta. Ma quando la notizia, durante la sua lunga agonia, salì lungo il Paese sino alle città del nord e alla capitale, la protesta divenne civile e sociale. I manifestanti di Tunisi non chiedevano soltanto giustizia per Bouazizi e una punizione per i suoi persecutori. Chiedevano libertà di parola e di stampa, libere elezioni, una politica sociale conforme alle attese delle ultime generazioni e soprattutto la fine del regime corrotto e poliziesco di Zine el Abidine Ben Ali, l’uomo che aveva conquistato il potere con un colpo di Stato «sanitario» (aveva chiesto ai medici di proclamare l’incapacità di Habib Bourghiba, fondatore della Tunisia indipendente).
Uno dei migliori giornalisti tunisini, Soufienne Ben Fahrat, commentatore della televisione e editorialista de La Presse, mi dice che i giorni di gennaio gli ricordavano i primi moti del Risorgimento italiano. Gli slogan dipinti sui muri erano spesso in francese e chiedevano una «Tunisie laïque», una Tunisia laica. La rivoluzione, insomma, parlava europeo ed era perfettamente in sintonia con le tradizioni di un Paese culturalmente meticcio: arabo e musulmano, ma anche, nel corso della sua storia, popolato da fenici, berberi, romani, siciliani, francesi, cristiani, ebrei. I primi mesi furono agitati, ma la rivoluzione prese rapidamente la strada più saggia: quella che avrebbe portato alle elezioni del 23 ottobre 2011 per la formazione di una Assemblea Costituente.
Accadde tuttavia quello che stava accadendo contemporaneamente in Egitto. I laici avevano riempito le piazze, fatto la rivoluzione e cacciato il tiranno, ma erano dispersi fra piccole formazioni politiche. Il solo partito organizzato era Ennahda (rinascita, risorgimento), una costola della Fratellanza musulmana, fondato negli anni Ottanta da Rachid Ghannouchi, esule a Londra fino al ritorno in patria nel 2011. Quando si aprirono le urne, si scopri che il 37,4% degli elettori aveva votato per Ennahda e gli aveva regalato 89 dei 217 seggi di cui si compone l’Assemblea Costituente. Gli altri diciannove partiti avevano conquistato percentuali che andavano dall’8,71% del Congresso per la Repubblica (29 seggi) allo 0,19% (un seggio) del Partito dell’equità e dell’uguaglianza. Ennahda aveva vinto, ma non forse nelle proporzioni sperate. Si dice che Ghannouchi si aspettasse di essere ricevuto in patria come l’ayatollah Khomeini quando centinaia di migliaia di iraniani erano corsi all’aeroporto, il 31 gennaio 1979, per accogliere trionfalmente il nemico dello Scià. Il bentornato per Ghannouchi era stato caloroso ma misurato e i leader del partito decisero prudentemente di governare la transizione con la collaborazione di altri due partiti. Ennahda avrebbe tenuto per sé il governo, ma avrebbe lasciato la presidenza della Repubblica a Mancez Marzouki, leader del Congresso della Repubblica, e quella dell’Assemblea costituente a Mustafà Ben Jaafar capo di Ettakatol, Foro democratico per il lavoro e la libertà. Questa è la troika che sovrintende alla transizione. Il capo del governo, Hamadi Jemali, si è dimesso dopo l’assassinio di un uomo politico di sinistra, ma il suo successore è pur sempre uomo di Ennahda, Ali Laarayedh. Ho incontrato suo fratello, Ameur Laarayedh, membro della Costituente e per qualche tempo presidente dell’Ufficio politico del partito, nella sede di Ennahda, una palazzina del quartiere tunisino di Montplaisir. E’ un uomo sui cinquant’anni con un elegante pizzo che è forse la sua versione della folta barba cara a molti membri della Fratellanza. Ha passato in Francia gli anni dell’esilio e mi descrive la transizione costituzionale come un laborioso percorso nel corso del quale i costituenti hanno elaborato parecchi progetti, confrontato testi stranieri, dialogato con la società civile e con le maggiori istituzioni pubbliche. Ennahda avrebbe preferito un regime schiettamente parlamentare perché il Parlamento, dice Laarayedh, è il luogo del confronto dove tutti possono proporre le loro idee e accordarsi per la creazione di un governo di unità nazionale. Ma i partiti laici vogliono un presidente eletto dal popolo e il risultato sarà probabilmente una repubblica semipresidenziale in cui il capo dello Stato avrà poteri meno estesi di quelli previsti dalla costituzione francese e simili, per molti aspetti, a quelli del presidente del Portogallo. Occorrerà anche, nel frattempo, istituire alcune autorità indipendenti, fra cui una per la magistratura e un’altra a cui affidare il compito di organizzare le elezioni, una funzione che si vuole sottrarre al ministero dell’Intero. E’ possibile che nelle prossime settimane, alla fine di queste consultazioni, l’Assemblea Costituente cominci a votare i singoli articoli e che le prime elezioni della nuova repubblica abbiano luogo alla fine dell’anno.
Saremmo quindi nella fase conclusiva di un percorso democratico in cui Ennahda rivendica i valori dell’Islam, ma vuole apparire conciliante e dialogante. Un altro deputato della Costituente, Osama Al Sarigh, mi dice che la costituzione tunisina potrebbe diventare un modello per l’intera ragione: un ruolo che in altri tempi sarebbe stato una prerogativa dell’Egitto. Me lo dice, incidentalmente, in un italiano pressoché perfetto perché è cresciuto in Italia ed è uno dei due parlamentari eletti dai duecentomila tunisini che vivono nella penisola.
Ma non tutte le persone che ho incontrato condividono questa rappresentazione di Ennahda. I laici diffidano del partito islamico e osservano che nei progetti del testo costituzionale sono apparsi anche articoli molto contestabili, come quello in cui la donna era considerata «complementare dell’uomo», e che vi è anche un preambolo sui grandi orientamenti dello Stato, ancora in discussione, in cui il sionismo è definito «razzismo». La Tunisia è sempre stata «dalla parte dei palestinesi», ma se Israele, nella nuova costituzione, venisse implicitamente definito uno Stato razzista, il partito della Fratellanza finirebbe addirittura a destra del popolo che dichiara di sostenere. Secondo i diffidenti, quindi Ennahda reciterebbe due parti in commedia: democratica con i laici, ma islamista con l’ala più radicale del movimento e soprattutto con i gruppi salafiti che sono diventati in questi ultimi tempi sempre più attivi e minacciosi. Mentre parlavo con Laarayedh e Al Sarigh, tuttavia, l’esercito tunisino era alle prese, sulla frontiera con l’Algeria, con formazioni di militanti salafiti appartenenti probabilmente ad Al Qaeda del Maghreb. E più recentemente (ne ho scritto in un articolo precedente) la polizia si è duramente scontrata con i salafiti di Tunisi e Kerouan. Forse Ennahda sta comprendendo che non sempre è possibile conciliare la gestione dello Stato e l’osservanza della legge coranica.
Sergio Romano
(2- Fine. La prima puntata è stata pubblicata il 20 maggio)