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 2013  maggio 26 Domenica calendario

LA RESA DELL’EX PREFETTO: «SIAMO STATI COSTRETTI» —

«Cosa voleva che facessimo? Era una decisione inevitabile, lo capiscono tutti. Non c’era altra scelta che dimettersi». Bruno Ferrante da ieri pomeriggio ha un altro titolo da ex nel suo curriculum: ex presidente dell’Ilva di Taranto.
La grande mediazione non ha funzionato. E lui, uomo delle istituzioni voluto dalla famiglia Riva per ricucire lo strappo con la magistratura, dopo dieci mesi lascia senza essere riuscito a stabilire nessun rapporto di fiducia con la procura di Taranto. Che anzi, dal suo arrivo in poi, ha moltiplicato i guai giudiziari dell’Ilva annotando nella lista degli indagati anche il suo nome. Muro contro muro continuo, nonostante il suo ripetuto «rispetto per la magistratura», malgrado il buon viso a cattivo gioco che gli è toccato sostenere più di una volta.
L’ex prefetto di Milano oggi è l’ex presidente dell’Ilva inquisito per disastro ambientale, avvelenamento di acque e di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. In realtà Ferrante ha tenuto soltanto per quindici giorni nelle mani le redini dell’azienda: dal dieci di luglio dell’anno scorso, data del suo insediamento, al 26 quando il giudice Patrizia Todisco sequestrò l’area a caldo dell’acciaieria affidandola ai custodi giudiziari. «Per quei quindici giorni mi accusano di ogni nefandezza» scuote la testa lui ogni volta che parla con qualcuno di quei capi di imputazione.
Amarezza dopo amarezza si è arrivati a ieri, a quel «passaggio obbligato», come lo chiama lui, delle dimissioni. Il giudice ha di fatto esautorato l’Ilva sequestrando la finanziaria Fire, che detiene l’83% della società siderurgica, affidandola a un suo custode giudiziario. Una sorta di esproprio, secondo la lettura dei vertici Ilva e della proprietà che di sicuro condivide anche l’uomo dello Stato Bruno Ferrante. Esautorati, di fatto, sia lui sia l’amministratore delegato Enrico Bondi. Messi alla porta con la terra bruciata fatta tutt’attorno allo stabilimento e con un’autonomia decisionale ridotta a questo punto al lumicino. Da qui la voce scoraggiata al telefono: «Cos’altro potevamo fare?».
Ferrante molla il colpo e prova a immaginare il prossimo 5 giugno quando l’assemblea dei soci si riunirà per ratificare le dimissioni. Ci saranno lui, Bondi e il consigliere Deiure da una parte del tavolo e dall’altra i soci, appunto. Ma il fatto è che fra i soci ci sarà non più l’uomo della Fire ma il custode voluto dal giudice Ferrante, il commercialista Mario Tagarelli. E sarà lui, con il suo 83% a decidere se accettare o meno le dimissioni, a capire che strada prenderà lo stabilimento da qui in avanti, a nominare il nuovo cda. Altra amarezza da mandare giù per l’ex prefetto di Milano che proprio con Tagarelli, aveva già gareggiato, se così si può dire, nella nomina come custode giudiziario l’anno scorso, in un balletto infinito di incarichi dati e poi revocati. Tagarelli era stato nominato custode con il sequestro dell’area a caldo, il 26 luglio 2012. Ma l’azienda investì della questione il tribunale del riesame che lo revocò per affidare il posto a Ferrante.
Patrizia Todisco — che con Ferrante ha ingaggiato una «guerra» fatta di atti, relazioni sulle attività dell’Ilva, indagini — decise di estromettere l’allora presidente Ilva, ritenendolo incompatibile con l’incarico di custode, dopo soli quattro giorni. E rinominò Tagarelli. Poi un nuovo colpo di scena: durante un’altra fase del procedimento giudiziario fu ripescata la decisione del tribunale del riesame e riammesso un’altra volta Ferrante a scapito del commercialista voluto dal gip. Tutto questo finché non è intervenuta la Cassazione stabilendo che il perdente finale sarebbe stato lui, Bruno Ferrante. Niente incarico da custode giudiziario, quindi nessuna partecipazione alle decisioni amministrative dello stabilimento.
Anche in quell’occasione, come sempre, Ferrante aveva usato parole moderate. Non ha mai alzato i toni nemmeno quando ha trovato «ingiusto» qualcuno dei tanti, ormai tantissimi provvedimenti che lo riguardavano. E anche ieri ha preferito non calcare la mano, non aprire altre polemiche, ripetere che «io resto convinto del fatto che all’Ilva si può conciliare il lavoro e la salute». Inutile chiedergli «E adesso?». La sola parola che si riesce a carpirgli è «vedremo». Nessuna voglia di parlare. Solo l’attesa, per ora. «Vedremo» come andrà nell’incontro del 5 giugno, «vedremo» chi e come si occuperà dell’Ilva nei prossimi anni. «Vedremo» che futuro avrà Taranto.
Giusi Fasano