Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 25/05/2013, 25 maggio 2013
«COSTITUZIONE TRADITA PER LA TRATTATIVA» —
Nove anni di galera per aver garantito la latitanza di Bernardo Provenzano e rafforzato la sua leadership all’interno di Cosa Nostra, nel tentativo di bloccare le stragi mafiose. Nove anni e interdizione perpetua dai pubblici uffici per un alto ufficiale dei carabinieri che «ha tradito la fedeltà giurata alla Costituzione, alle leggi e all’Arma», scandisce alla fine della sua requisitoria il pubblico ministero Antonino Di Matteo. È la richiesta al tribunale che deve giudicare l’ex comandante del Ros Mario Mori, generale e prefetto oggi in pensione, e il suo «più fedele scudiero» Mauro Obinu, colonnello ancora in servizio per il quale l’accusa sollecita sei anni e mezzo di pena. Accusati, sulla base dell’iniziale denuncia di un altro carabiniere, di non aver arrestato Provenzano nell’ottobre del 1995, nelle campagne siciliane di Mezzojuso, nonostante ne avessero avuto la possibilità.
Naturalmente Mori, uno degli investigatori di punta dell’Arma nei campi antiterrorismo e antimafia, sostiene tutt’altre tesi. Che esporrà fin dalla prossima udienza, con dichiarazioni che si annunciano «fluviali»; una vera e propria contro-requisitoria. Ma adesso è il momento delle conclusioni della Procura, che per cinque anni ha condotto un dibattimento che costituisce l’anteprima e buona parte di quello che comincerà lunedì prossimo contro lo stesso Mori e altri nove imputati, nella vicenda legata alla cosiddetta trattativa fra lo Stato e la mafia. Lì compariranno alla sbarra uomini dello Stato e della mafia, accomunati dall’ipotetico reato di «minaccia a un corpo politico dello Stato»; qui ci sono solo due carabinieri che rispondono di un favoreggiamento che per quanto «aggravato» sarebbe già decaduto se gli imputati non avessero rinunciato alla prescrizione.
Al fianco di Di Matteo, al momento delle richieste di condanna, ci sono il procuratore Francesco Messineo, l’aggiunto Vittorio Teresi e il sostituto Francesco Del Bene; un inedito schieramento di toghe per simboleggiare l’unità di un ufficio che pure sulla «questione trattativa» s’è diviso ed è stato attraversato da tensioni. E l’ultima parte della requisitoria è tutta dedicata al movente del mancato arresto di Provenzano (lasciato in libertà fino alla cattura del 2006 per mano della polizia): la necessità di onorare un patto stipulato con lo stesso padrino corleonese attraverso Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo contattato dal Ros nel 1992, all’indomani della strage di Capaci e prima di quella di via d’Amelio che uccise Paolo Borsellino. Il quale, sostiene Di Matteo, ebbe «progressiva conoscenza» della trattativa avviata dai carabinieri, provocando così l’accelerazione del progetto mafioso di eliminare anche lui.
«Mori e Obinu non furono collusi, corrotti o ricattati dalla mafia — afferma il pm — ma fecero la sciagurata scelta di politica criminale di far prevalere le esigenze di mediazione favorendo l’ala ritenuto più moderata di Cosa Nostra». In sostanza, arrivare alla cattura dello stragista Riina (effettivamente arrestato proprio dai carabinieri del Ros nel gennaio 1993) per favorire e assicurare il prevalere del dialogante Provenzano «che avrebbe garantito l’abbandono di uno scontro violento con lo Stato». In una parola: la «trattativa», termine usato dallo stesso Mori quando depose nel 1998 davanti alla Corte d’assise di Firenze, prima che emergessero tutti gli elementi venuti alla luce con le indagini più recenti. «Ci sono voluti 18 anni per far tornare la memoria a molti protagonisti di quella stagione», superando le «reticenze politico-istituzionali che ci sono state e continuano ancora».
Sulla base dei nuovi elementi raccolti a partire dalle dichiarazioni del «controverso» Massimo Ciancimino, figlio di «don» Vito, l’accusa sostiene che non a caso i contatti tra i carabinieri e l’ex sindaco furono rigorosamente taciuti ai magistrati e agli altri organismi investigativi, senza lasciarne traccia in atti ufficiali, mentre si cercava «sostegno o condivisione politica» presso il ministro della Giustizia, appoggi dal presidente della commissione antimafia Violante e nella corrente della sinistra democristiana. «Non fu un’iniziativa come si vorrebbe far credere, ma una trattativa di tipo politico di cui si doveva parlare solo con gli organismi politici», accusa Di Matteo. Da lì scaturirono le ipotesi sulla dissociazione per i mafiosi, l’allentamento del «carcere duro», la mancata cattura di Provenzano e altri episodi sospetti di cui si parlerà più ampiamente nel processo che comincia dopodomani. E di cui la sentenza nei confronti dei carabinieri Mori e Obinu, prevista entro la pausa estiva, costituirà inevitabilmente una sorta di prova generale.
Giovanni Bianconi