Sergio Rizzo - Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 25/05/2013, 25 maggio 2013
I VENT’ANNI PERDUTI
Avevano esagerato, e finalmente ne hanno preso atto. La campana a morto per il finanziamento pubblico dei partiti suona esattamente vent’anni dopo il referendum del 1993.
Allora, in piena Tangentopoli, 34 milioni di italiani cancellarono un pezzo di quella legge che nel 1974, mentre infuriava lo scandalo delle tangenti pagate dai petrolieri, aveva aperto i rubinetti statali promettendo di annientare la corruzione. Mai promessa è stata più vana.
Nessuno può dire con esattezza quanti denari dei contribuenti i partiti abbiano ingoiato in 39 anni, tanti sono i torrenti e i rivoli dorati che hanno alimentato un fiume in piena: «rimborsi» elettorali, contributi ai gruppi politici del parlamento e dei consigli regionali, sgravi fiscali, finanziamenti ai giornali, perfino agevolazioni postali. Ma certo si parla di cifre astronomiche. Non meno di 10 miliardi di euro attuali: oltre 6 di soli «rimborsi», dal 1974 a oggi. E la corruzione ha continuato a dilagare, come non cessa di ricordarci la Corte dei conti.
Troppi soldi correvano mentre la mediocrità della politica, complice una legge elettorale vergognosa, avanzava inarrestabile e il Paese si impoveriva. Nel solo decennio dal 2001 al 2010, periodo durante il quale il Pil procapite reale, cioè la ricchezza prodotta da ciascuno di noi, si riduceva in Italia del 4 per cento, unico Paese dell’eurozona a sperimentare un tracollo simile, i «rimborsi» elettorali passavano da 101 a 285 milioni di euro. Più 182 per cento. Anni durante i quali i partiti avevano fatto digerire agli italiani leggine scandalose e fulminee, come quella che ha garantito loro doppia razione di «rimborsi» nel caso di scioglimento anticipato della legislatura. Offrendo spettacoli maleodoranti. Il più indecente di tutti, i milioni versati nelle casse di partiti morti e di forze politiche senza un solo eletto.
Troppi soldi, che hanno finito per alimentare scandali come quello dei rimborsi della Margherita finiti nelle tasche del suo tesoriere, degli investimenti leghisti in Tanzania o dell’uso privato dei fondi destinati ai gruppi del consiglio regionale del Lazio da parte dei vari Batman. Gettando ancora di più il discredito sulla politica e sui partiti. Così neanche la legge che ha dimezzato i «rimborsi» elettorali, approvata in fretta e furia dopo quelle scioccanti vicende, poteva bastare.
Non era in grado di reggere, quella riformina del luglio 2012 che comunque aveva avuto il merito di introdurre i controlli sui bilanci, alle spallate delle orde grilline. Né al sentimento popolare, come ha subito capito Silvio Berlusconi, capace di promettere l’abolizione del finanziamento pubblico in campagna elettorale prendendo tutti in contropiede, nonostante proprio durante i suoi governi fossero state partorite le leggine di cui sopra.
Ma neppure poteva resistere alle crescenti pressioni interne a partiti come il Pd, il cui ex leader Pier Luigi Bersani quando ancora sperava di diventare premier con i voti del M5S si era detto pronto a discuterne, alzando però una barricata: «La politica una qualche forma di sostegno pubblico deve averlo. Anche fosse per un solo euro non sono disposto a rinunciare». Uscito di scena Bersani, anche la barricata è caduta.
E come al solito adesso passiamo da un estremo all’altro... Se fino a ieri eravamo il Paese europeo dove i partiti incassavano più soldi dallo Stato, da domani saremo gli unici nel continente a non dare neppure un centesimo alla politica? In un lavoro presentato martedì da Piero Ignazi ed Eugenio Pizzimenti durante un convegno organizzato al Collegio Carlo Alberto di Moncalieri si dimostra infatti che ovunque in Europa esistono forme dirette e indirette di finanziamento ai partiti. Unica eccezione, la Svizzera. Tutto dipenderà da cosa ci sarà scritto nel disegno di legge previsto dal governo per la prossima settimana. Il quale non potrà comunque prescindere, se dev’essere una cosa seria e non un altro pannicello caldo per placare il malcontento, dalle norme sulla natura giuridica dei partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che questo Paese aspetta da 65 anni.
Ci saranno, per esempio, sconti fiscali? In tal caso va detto subito che pure gli sgravi fiscali concessi ai privati finanziatori della politica sono una forma di finanziamento pubblico. Prima della riforma di luglio 2012 erano al 19 per cento fino a un tetto di 103 mila euro, risultando in questo modo addirittura 51 volte più favorevoli delle detrazioni previste per le donazioni benefiche. La conseguenza è che ogni anno lo Stato, su circa 50 milioni di contributi privati, ce ne metteva di tasca propria una decina. Ora il limite massimo per avere gli sgravi è a 10 mila euro, ma soltanto per i singoli privati: per le società resta come prima. In compenso la detrazione è salita al 26 per cento. Si potrà evitare di offrire incentivi fiscali ancora più sostanziosi, dovendo sostituire il finanziamento privato a quello pubblico per alimentare apparati di partito ancora decisamente imbolsiti e drogati, per anni, dai fondi statali? Tanto più considerando il peso enorme dei soldi dei contribuenti?
Dai dati messi in fila da Ignazi e Pizzimenti analizzando i bilanci delle nostre formazioni politiche salta fuori che il contributo statale è ormai per tutte la porzione più consistente delle risorse. Avendo pian piano soppiantato, negli anni, le fonti tradizionali dei partiti di massa: tessere, sottoscrizioni, fondi privati. La prova? Nel 1994 queste ultime rappresentavano il 53,8 per cento degli introiti del Pds. Per il Partito democratico, nel 2010, non andavano oltre il 10,7 per cento: il restante 89,3 erano denari pubblici. Se poi anche la Lega Nord rastrellava nel 1994 da iscritti, militanti e qualche donatore, oltre metà (il 52,5 per cento) delle proprie disponibilità, quella quota si era ridotta nel 2010 al 38,3 per cento. E risultava, con il 61,7 per cento, il partito meno dipendente dai contributi statali. Il Pdl sfiorava il 70 per cento. Rifondazione comunista, nonostante fosse fuori dal Parlamento, ricavava l’87,2 per cento dai «rimborsi» elettorali.
Altra domanda: come sarà possibile impedire le interferenze delle lobby e dei grandi gruppi industriali e finanziari, una volta «scomparso» il finanziamento pubblico? È chiaro che sarà necessario introdurre tetti massimi modesti e rigorosi tanto alle spese elettorali (esplose negli ultimi vent’anni parallelamente ai contributi pubblici), quanto alle donazioni. Il che, oltre a evitare condizionamenti, favorirebbe le sottoscrizioni popolari irrobustendo i rapporti con la base.
L’essenziale è che tutto avvenga nella più completa trasparenza. I dati devono essere disponibili online, e non come oggi confinati in un cassetto di un ufficio della Camera dei deputati dal quale possono uscire soltanto in seguito a una complessa procedura. Soprattutto, quando escono è sempre troppo tardi: le elezioni sono passate e gli elettori vengono a sapere a babbo morto da chi ha preso i soldi il candidato per cui hanno votato. Si deve quindi imporre ai partiti di pubblicare tutte le contribuzioni sui loro siti internet: in tempo reale quelle di importo più rilevante, con nomi e cognomi. Esattamente come in Germania, dove c’è l’obbligo di rendere noti immediatamente i finanziamenti privati di importo superiore a 50 mila euro. E non tiriamo in ballo la privacy, per favore.
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella