Emanuela Audisio, la Repubblica 26/5/2013, 26 maggio 2013
EVEREST UNA CONQUISTA LUNGA SESSANT’ANNI
Allo spilungone magro, neozelandese, di professione apicoltore, scappò solo una parola. «L’abbiamo battuto quel bastardo». L’altro, il piccolo nepalese, gli strinse la mano: non sapeva né leggere né scrivere, ma capiva le lingue. E credeva che lassù, sul Tetto del mondo, ci abitassero gli dei, per questo si affrettò a lasciare una stecca di cioccolato, biscotti e dolciumi. Non voleva si arrabbiassero. L’Everest che i monaci tibetani chiamavano Chomolangma, Madre dell’universo, non era più casa loro. Si era fatto mettere i piedi in testa. Sessanta anni fa le divinità furono sfrattate. A 8.848 metri arrivò per la prima volta l’uomo.
Erano le 11,30 del 29 maggio 1953. Non tirava vento, non giravano aerei, non c’era folla. Il giorno dopo a Londra ci sarebbe stata l’incoronazione della regina Elisabetta. L’Everest a quei tempi era la Luna: lontana e irraggiungibile. Su c’erano le stelle, giù lo strapiombo. Edmund Hillary, 33 anni, e lo sherpa Tenzing, 39, rimasero sulla cima himalayana per quindici minuti. Avevano le dita rigide, in pancia succo di limone zuccherato, gallette e sardine, e sulle spalle uno zaino con venticinque chili, bombola d’ossigeno compresa. La spedizione era diretta da un colonnello britannico, John Hunt: dieci alpinisti più un medico, 350 portatori per dieci tonnellate e mezzo di materiale. Come ogni prima volta c’era la paura dell’ignoto, si camminava ai bordi di geografie sconosciute. L’Everest aveva ringhiato a undici spedizioni, e si era sbarazzato nel ’22 anche di Mallory e Irvine. Poveri sognatori d’infinito, ma grandi raccontatori di quel miraggio: «Al crepuscolo l’Everest splende come la stella solitaria di Keats».
I problemi che il Tetto del mondo poneva erano tre: altitudine, condizioni atmosferiche, difficoltà di scalata. A ottomila metri basta una bava di vento per far scivolare il termometro a -50°, l’ipossia mangia il cervello, l’organismo si disidrata, lo stomaco si paralizza: ci si ritrova indifferenti, stanchi, con una grande voglia di dormire e di non svegliarsi più. Per questo a Hunt era stato consigliato di arruolare Emile Zatopek, grande fondista cecoslovacco. Lo racconta ne La conquista dell’Everest (Castelvecchi). Serviva forza, energia, velocità. A quella quota per fare 200 metri ci vuole mezz’ora. Anche abbassare una cerniera costa una fatica pazzesca. Quei problemi sono rimasti: perché l’importante sull’Everest non è arrivare, ma riuscire a tornare. Hillary si stremò a tagliare gradini nel ghiaccio per due ore e mezza sia all’andata che al ritorno. Per questo in cima aveva piantato nella neve un piccolo crocefisso, sapeva che anche scendere dalla croce porta dolore.
Venticinque anni dopo il futuro tornò sull’Everest. Anche se la Scienza diceva che non era possibile, quel confine era invalicabile, troppo per un uomo. I fisiologi giurarono: lassù c’è la morte, aria sottile e parole senza senso. Reinhold Messner li smentì. Salì in fretta, con poche cose, e un compagno. Reinhold si disegnò gli scarponi da solo: in plastica, non in cuoio. Si fece fare una pellicola speciale in Inghilterra, che non si spezzasse, in modo da poter filmare la sua ascensione. La prima senza ossigeno. E in stile alpino. La quattordicesima della storia. Era l’8 maggio 1978. L’impossibile non esisteva più.
Reinhold Messner e Peter Habeler lo avevano calpestato. In appena quattro giorni. In vetta Reinhold, 33 anni, si bruciò gli occhi: «Dimenticai di mettere gli occhiali». Habeler, che aveva sofferto di mal di testa, era così impaurito dalle conseguenze che quasi scappò e per sei anni non scalò più un ottomila. «Al ritorno ci separammo, andò per primo, vidi la sua lunga traccia, stava scendendo di sedere, come su uno slittino». La Scienza non si volle rassegnare, l’università di Zurigo insistette che non era possibile. Due settimane dopo l’ascensione Messner accettò di salire in quota sul cielo di Baden-Baden. «Stavolta su un aereo da turismo, con un team scientifico che mi fece un prelievo: risultò che avevo il sangue di un morto». Il segreto era nello slogan: salire di più con meno. Detto in inglese: more with less.
Leggerezza e velocità. Una piccola spedizione, due persone affiatate, autosufficienti, che si fidavano dell’altro. «Quindici-venti chili di bagaglio: tenda, sacchi a pelo, fornello, provviste, corda da venti metri per emergenza. Un valium per dormire e mezza aspirina per il sangue. Il punto chiave fu la preparazione sul Colle Sud, dove restammo bloccati per due giorni nella bufera, senza ossigeno né cibo. Fu dura, però ci servì a capire che eravamo acclimatati. Il secondo tema è stato tattico, non abbiamo messo il campo V a 8.500 metri, perché una notte lì ci avrebbe stremato, ma scelto una posizione intermedia a 7.100. Con una salita vertiginosa siamo arrivati in cima. All’epoca l’Hillary step, l’ultimo dente che porta sull’Everest, non era ancora assicurato. Eravamo legati, ma se uno fosse precipitato, l’altro avrebbe dovuto lanciarsi dall’altro capo della cresta. Era l’unico modo per salvarsi. Su quel versante il vento soffia verso il basso, se cadi sei finito».
Quell’avventura chiuse un secolo e ne aprì un altro. Il grande problema dell’Himalaya era risolto. La vera impresa però era tenere insieme le due epoche. Messner strappò, ricucì, rilanciò. Fu il primo a capire l’importanza dell’allenamento specifico, ma anche il primo a rifiutare l’ossigeno. Vecchia anima, spirito nuovo. Capacità d’inventare e sperimentare. Un ultimo Ulisse, che per quella montagna aveva lasciato studi e ragazza. L’Everest era la sua ossessione. Ci ritornò nella maniera più dura e pura nell’80: da solo, sempre senza ossigeno, salendo dal versante nord (nessuno l’ha più ripetuta). E lassù: «Mi accuccio, sentendomi duro come una pietra. Voglio solo riposarmi, dimenticare tutto, sono svuotato». Scriverà che è caduto in un crepaccio e di una prova che è «una continua agonia».
Sessant’anni dopo l’Everest ha più vie di accesso, molto traffico e un turismo d’alta quota, anche più di 150 persone al giorno. Oltre seimila i visitatori che ce l’hanno fatta, più di 200 le vittime. Da fine marzo alla prima settimana di giugno, ci sono le stesse code che in città. L’anno scorso il Nepal ha rilasciato 325 permessi, da minimo 10mila dollari l’uno. Non è più una vetta solitaria, ma un’autostrada per spedizioni commerciali. Con corde fisse. In elicottero costa 70 mila euro. Una Disney land dall’aria rarefatta, una gita con cui farsi grandi, un falò ghiacciato di vanità. Un trofeo per chi cerca conferme e unicità: il primo disabile, il primo cieco, la prima donna, il primo a scendere con gli sci, il primo con il parapendio, il primo (scemo) a provare a salire in tenuta balneare, in sandali, calzoncini corti e a torso nudo. Perché l’Everest è un mito che innalza, ma ormai anche una salita piena di spazzatura e zombie.
Aria Sottile di John Krakauer denunciava i cacciatori di vette: 15 vittime nel ’96. Chi muore viene lasciato lì, anche chi non ce la fa più: Croce Rossa e pompe funebri non esistono. Mario Curnis, bergamasco, è uno dei nonni dell’Everest. Ci è salito, al terzo tentativo, nel 2002 (con Simone Moro): a 65 anni e 157 giorni. «Per evitare di andare via di testa mi ero portato un cartoncino pieno di scritte sciocche: con età, nome e indirizzo sbagliato. Sapevo che nel momento in cui l’avrei trovato giusto sarebbe stata la mia fine. Significava che non ero più in grado di ragionare. Come quelli che stanno lì, abbandonati, in una posa pensierosa. I morti. Di edema cerebrale. Congelati. Tanti giovani. La strada per l’Everest ne è lastricata. Fanno effetto. Sembra stiano riposando». L’Everest va rispettato, dice, non comprato.
C’è ressa e rissa, oggi. In quella che era la valle del Silenzio, tutti spingono, gli sherpa vogliono gestire business e clienti. Simone Moro ci è salito quattro volte sulla cima. Ne ha scritto in Everest. In vetta a un sogno (Rizzoli). Un mese fa con i suoi compagni è stato aggredito, sassi, botte, perfino una pugnalata, da sherpa gelosi e vogliosi di gestire l’affare dell’anniversario. Messner e Moro sono d’accordo: «La più alta delle montagne è ridotta a un grande circo». Sessant’anni fa l’Everest era lì: terribile e magnifico. Un gigante per altri giganti. Oggi è qui, uno scalpo per gregari.