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 2013  maggio 26 Domenica calendario

ANTONIO CONTE IL CANNIBALE DEL PALLONE

Quando sento l’odore dell’erba mi torna in mente l’infanzia, racconta in un libro di qualche anno fa,
Jorge Valdano, ex calciatore rivelatosi scrittore di genio non soltanto sulle vicende del calcio, campione del mondo con l’Argentina nel 1986 e dirigente del Real Madrid fino al momento in cui ha scoperto di essere incompatibile con il carattere di Josè Mourinho. Quando domando ad Antonio Conte che cosa significhi per lui quell’odore, l’allenatore della Juventus ci pensa su qualche secondo, poi mi spiega che l’erba è la sua casa: «È l’odore a cui sono più abituato, è un odore che mi piace». L’erba non è un ricordo bambino, ma il suo pasto quotidiano. Diciamolo subito, Conte non ha ambizioni da poeta e nemmeno è capace di atteggiarsi a istrione per conquistare la simpatia altrui. Voglio soltanto ragionare di calcio, esordisce. Le sue risposte sono brevi, i contenuti non abbandonano quasi mai il perimetro della tecnica. Il calcio è il mestiere che lo divora. Sportivamente parlando questo è il ritratto di un cannibale della panchina che in cinque anni si è messo in pancia quattro titoli, due di A e due di B. Il campionato si è appena concluso e lui è già tornato ad avere fame dell’erba degli stadi e dei cuori avversari, cosa che gli impone la sua natura. Cinque giorni fa ha congedato i suoi giocatori. Erano stremati. Loro hanno tirato un sospiro di sollievo, lui si è seduto sull’orlo del vuoto, ha soppesato le fatiche di una lunga stagione e, siccome non sai mai quando è l’ultima volta di qualcosa, figuriamoci della vittoria, ha pensato che quello era il primo giorno triste negli ultimi sei mesi e dopo la squalifica per il calcioscommesse. «Subito mi sono detto: non mi sento completamente prosciugato, ma le energie sono arrivate al limite di guardia, ho bisogno di riposare. Qualche ora dopo è subentrata la nostalgia, la prospettiva di dovermi allontanare per un mese e mezzo dalle persone con le quali lavoro fianco a fianco sette giorni su sette mi è precipitata addosso. Vuole la verità? Mi mancano i giocatori». Le cose peggiori che possono capitare a una squadra sono due: perdere il carattere e confondere i ruoli che il carattere aiutano a formarlo. Ma, attenti, la nostalgia di Conte è quella per il lavoro e per l’amicizia che il lavoro cementa.
Non deve ingannare uno scambio di sms notturni con Gianluigi Buffon dopo il disgraziato errore del portiere nella partita con il Lecce a Torino che lo scorso anno rischiò di compromettere la corsa scudetto. Buffon chiese scusa: «Avrei preferito rompermi i legamenti ». Conte lo rincuorò: «Stai dando il massimo e darai ancora di più». Questa è la regola dettata alla truppa: andare oltre il massimo. I sentimenti si creano e si distruggono dentro quel rettangolo d’erba: «Fuori dal campo non ho alcun rapporto con i giocatori, credo sia una condizione indispensabile per un buon allenatore. Ognuno deve rimanere al suo posto. Sono stato dall’altra parte. Percepisco in anticipo lo stato d’animo dello spogliatoio, so quando serve ascoltare e quando bisogna alzare
la voce».
Quando si diventa allenatori?
«Io avevo vent’anni, stavo nel Lecce e allenavo la squadra della scuola elementare di mio fratello Daniele che di anni ne aveva dieci».
E si disse: sono un predestinato.
«Sì. Lei adesso penserà: questo qui è un arrogante. Eppure capii subito di possedere in panchina il talento che mi mancava in campo. Da calciatore avevo corsa, contrasto, inserimento sotto porta, sacrificio e niente di più».
I maestri non le sono mancati. Giovanni Trapattoni veniva da un calcio lontano. Da Nereo Rocco e Pelè. Che cosa le ha insegnato?
«L’umiltà. Si metteva al servizio dei giocatori, aveva sempre qualcuno a cui migliorare il piede sinistro, lo stop a seguire, il cross dal fondo, il tiro da lontano… Lo prendeva da parte, spendeva ore del suo tempo. Senza di lui non sarei rimasto tredici anni alla Juventus. Si sarebbero accorti presto che non ero all’altezza e mi avrebbero dato un calcio nel culo».
La paragonano a Marcello Lippi.
«Trionfi e dolori. Mi cambiò di ruolo, litigammo. Vincevamo tutto e non mi divertivo. Glielo dissi davanti a tutti i compagni, mi fece tacere ricordandomi che comandava lui. Lo ricordo soprattutto per l’ambizione e la cattiveria agonistica ».
Con Carlo Ancelotti vi incrociaste già in Nazionale ai tempi di Sacchi.
«Fu un fratello maggiore, aveva una visione modernissima del calcio. Arrivò alla Juve molto giovane e non venne accolto benissimo per via del suo passato alla Roma e al Milan. Sacchi è stato un rivoluzionario, ciò che fu per l’Olanda l’Ajax di Cruijff e Michels, il suo Milan e la sua Nazionale lo furono per l’Italia. Quando mi convocò in azzurro arrivai in ritiro con l’ansia addosso, la zona non era il mio gioco. Soffrivo di mal di testa continui».
Dino Zoff, ancora in Nazionale.
«Un gentiluomo d’altri tempi, l’erede di Bearzot e Trapattoni. Costruì e guidò una bellissima squadra agli Europei del 2000. Fummo sfortunati, una finale maledetta decisa da Trezeguet, uno dei più grandi attaccanti con cui ho avuto la fortuna di giocare. Sapeva far gol in tutti i modi, con ogni parte del corpo».
Quanto le sono servite le sconfitte per diventare il cannibale di oggi?
«Se ripenso a quante sono state spero moltissimo. Ho perso tre finali di Champions contro Milan, Real Madrid e Borussia Dortmund; una coppa Uefa contro il Parma e una coppa Italia contro la Lazio; la finale ai Mondiali negli Usa e quella degli Europei a Rotterdam. La paura di perdere me la porto addosso. L’ho avuta anche dopo il successo sul Catania a Torino con la rete di Giaccherini. Il Napoli era lontano e sembrava tutto facile. Non per me. Da allora abbiamo infilato otto vittorie consecutive ».
Dicono che lei è un martello. Quante ore dedica al calcio ogni giorno?
«Faccia il calcolo. Una giornata è di 24 ore, ne dormo cinque, tre le dedico alla famiglia, ne restano sedici».
E sul campo quanto sta?
«Guardi, noi ci alleniamo in media due ore e mezzo al giorno, compreso il lunedì quando abbiamo impegni il mercoledì».
Preparazione atletica, corsa, tattica e partitella?
«Nessuna partitella con me, la partitella è quella che si fa tra amici. Parola abolita. C’è la partita di allenamento».
È vero che a Bergamo allenava l’Atalanta a tempo di rock?
«Musica da discoteca. La usavo durante le sessioni di prove sotto sforzo. La musica è dopante. Io l’ascolto sempre quando studio: rock, Biagio Antonacci, Ligabue, Jovanotti…».
Quali sono le sue letture?
«Libri attinenti il mio lavoro, testi di psicologia sportiva. Mi piacciono le biografie dei campioni. Ho appena terminato quelle di Ibrahimovic e di Agassi».
Come sopporta la sua ossessione Elisabetta, la donna che sposerà tra pochi giorni?
«Sa che sono passionale, non un pazzo. Lei non ha mai seguito il calcio, credo di poter dire che non capisce nulla di pallone. Conoscevo i suoi genitori, eravamo vicini di casa. Il padre la domenica portava i figli in bicicletta al parco del Valentino. Mai allo stadio. Mi sono innamorato di Elisabetta che avevo smesso di giocare. Era il 2004. La incontrai al bar, bevemmo un bicchiere d’acqua, qualche parola, una battuta… cominciò così. A casa cerchiamo di parlare d’altro. Mi sforzo. Ogni domenica sera Vittoria, nostra figlia, le chiede: “Mamma, papà ha vinto, vero?”. E se Elisabetta le risponde: “No, abbiamo perso”, lei si rabbuia e dice: “Allora papà sarà molto arrabbiato quando torna”».
Lei considera la rabbia una componente del talento?
«No, la rabbia è la colonna sonora. Il talento sta nelle idee, soprattutto quelle offensive. Nel calcio di oggi saper attaccare fa la differenza tra la normalità e la genialità. Bisogna inventare, spostare gli avversari e creare gli spazi nei quali ci si può infilare».
Non si fa altro che parlare di moduli. Sono davvero così importanti?
«Il modulo ha sostituito la concezione tattica che esisteva ai tempi dello stopper, del libero, del terzino, del tornante. Abbiamo studiato un po’ tutti Van Gaal, Sacchi, Guardiola. Oggi più che di moduli si dovrebbe parlare di principi di gioco. Possesso, pressing alto, riconquista immediata della palla, difesa in avanzamento: sono queste le caratteristiche di una squadra moderna. Per capire pensi a Vidal, lo segua in partita: lo trova ovunque, in difesa e in attacco, a velocità bassa, media e alta. È il regolatore della nostra intensità di gioco, un po’ come lo era Davids nella Juve di Lippi».
È difficile trasmettere questi insegnamenti ai giocatori?
«I calciatori sono molto più preparati e intelligenti di quanto generalmente si pensi. Il campo è la prova vera, lì le parole si riducono a suoni. O l’orchestra funziona o stecca anche il primo violino. Trasferire in campo un’idea di gioco è impresa difficilissima».
Che cosa manca alla Juventus?
«Un po’ di qualità».
Tornando al talento, qual è il più grande campione che ha conosciuto nella sua carriera?
«Maradona, è stato il dio del calcio. Ero nel Lecce, maglia numero 4, e il 4 marcava il 10. Lui era a fine carriera e già un po’ sovrappeso. Mi massacrò. Per i compagni era il capo anche quando si limitava a respirare».
Zinedine Zidane?
«Rendeva semplice l’incredibile. Lo guardavi e dicevi: questo lo so fare anch’io. Ci provavi e t’inciampavi. La mobilità delle sue caviglie sfidava i limiti della fisica, era dotato della sterzata più elegante della storia del calcio. Introverso, taciturno e buono, sempre tra gli ultimi a lasciare l’allenamento».
Roberto Baggio e Alessandro Del Piero?
«Due creativi, molto simili nel modo di calciare. Baggio correva quando gli altri stavano fermi e stava fermo quando gli altri correvano, inventava. Alex è un perfezionista, un mix di orgoglio e lealtà».
Andrea Pirlo?
«L’abbiamo preso perché lo consideravamo una garanzia, è riuscito a sorprenderci superando se stesso. Ha umiltà rara nei fuoriclasse e la freddezza del leader. Ai compagni prima della gara raccomanda sempre una cosa: “Datemi la palla anche se sono marcato, non preoccupatevi”. Pogba ne è l’erede ».
Gianluigi Buffon?
«Il migliore al mondo, il Federer dei portieri. Senso della posizione, lettura dell’azione, esplosività, padronanza dell’area piccola. Potrebbe giocare fino a cinquant’anni».
Il calcio è progredito come il traffico, gli spazi si restringono, il rischio di ingorghi si moltiplica. Quale sarà il calcio del futuro?
«Più velocità, più intensità, più tecnica. Sempre più chilometri da percorrere in novanta minuti. Giocatori sempre più atleti. Un po’ quello che ci sta facendo vedere il Bayern».
Non più il Barcellona. La bellezza da sola è spesso noiosa?
«Il Barcellona di oggi è diverso da quello di due anni fa. Se n’è andato Guardiolae,forse,èsubentratounpo’di appagamento».
Mentre il calcio corre, le curve regrediscono ai “buu” della preistoria. I calciatori sono migliori dei loro tifosi?
«Siamo in una fase di grande pericolo e, lo dico disarmato, non ho una soluzione da suggerire. Ha ragione Thuram quando spiega che neri non si nasce, ma ti fanno diventare. Il razzismo negli stadi è soltanto una delle declinazioni del linguaggio d’odio che colpisce con la stessa viltà Balotelli, Pessotto, le vittime di Superga, i morti dell’Heysel. La faccia della violenza è quella dei padri che ho visto stringere in un braccio un figlio piccolo e nell’altro un bastone. Forse dobbiamo ricominciare dai ragazzi, dalla scuola, dai settori giovanili. Dall’educazione, insomma, più che fermare i campionati».
Lei ha rovesciato l’immagine della Juventus, in sintonia con il presidente Andrea Agnelli. Meno aplomb sabaudo, tanta, forse troppa, aggressività. Era necessario?
«Sono accadute delle cose, siamo diventati più feroci. Fermiamoci qui».
Gli scudetti bianconeri sono 29 o 31?
«Sono due con Conte in panchina».
«È agghiacciante!». Dica la verità: non si è pentito di aver usato quell’aggettivo che la perseguita con gli sberleffi della satira?
«Fu una parola non meditata. Volevo dire tremendo, rendere l’idea di qualcosa che mi terrorizzava. Agghiacciante è un sinonimo. O no?».