Carlo Bonini e Giuliano Foschini, la Repubblica 26/5/2013, 26 maggio 2013
COSÌ LA FAMIGLIA RIVA INGANNÒ ANCHE MONTI
NELLE carte dei magistrati di Taranto e Milano c’è la storia di un Grande Inganno.
QUELLO che la famiglia Riva ha consumato per vent’anni ai danni del Paese e dei suoi governi, di una città intera, dei suoi operai, dell’ambiente. I proprietari dell’Ilva pompavano montagne di veleni nei cieli di Taranto e montagne di denaro oltre confine. Otto miliardi e 100 milioni di euro. Blandivano e assicuravano l’opinione pubblica, mentre i loro avvocati lavoravano per rendere impermeabili dall’aggressione della magistratura i trust off-shore che di quell’immensa ricchezza erano la cassaforte.
Questo denaro, in buona parte, è sparito. E ne è prova la frustrazione di chi, nelle ultime 36 ore lo è andato inseguendo con in mano un decreto di sequestro. «Abbiamo cercato in dodici città — racconta una fonte investigativa — Da Potenza a Milano. Abbiamo visitato 16 banche diverse, bloccato e aggredito depositi, titoli, partecipazioni societarie, immobili. Presto apriremo le cassette di sicurezza. Ma stiamo cercando di superare con grande fatica il miliardo». Dove sono finiti dunque gli altri 7 miliardi?
LA SVIZZERA E JERSEY
Conviene partire da quanto annota la Guardia di Finanza nell’indagine della Procura di Milano che, nei giorni scorsi, ha già portato al congelamento di un miliardo e 200 milioni di beni della famiglia Riva (gli atti di indagine sono arrivati ieri a Taranto). «L’Ilva — si legge — crea otto trust, Orion, Sirius, Antares, Venus, Lucam, Minerva, Paella e Felgma, nel paradiso fiscale di Jersey». E su questi trust convoglia la liquidità pompata dall’azienda dopo averla fatta transitare per la Svizzera. «Si tratta — documenta la Finanza — di un mero espediente giuridico, che ha lo scopo di occultare la titolarità del denaro e creare un diaframma che eluda le ragioni dei creditori, compreso l’Erario». Non a caso, nel marzo scorso, mentre Enrico Bondi viene presentato al Paese dai Riva come nuovo amministratore delegato, epifania di una nuova stagione di “trasparenza e impegno”, la famiglia si preoccupa di mettere al riparo ciò che ha già fatto sparire. «C’è un tentativo — scrive il gip di Milano, Fabrizio D’Arcangelo — di modificare la giurisdizione dei trust per effetto delle iniziative dell’autorità giudiziaria di Taranto».
IL PATTO SEGRETO
La dissimulazione, del resto, appare il mantra dei Riva. E la Guardia di Finanza ne ha conferma quando scopre il “patto di famiglia” che governa i trust e individua nel vecchio Emilio il suo
dominus. «In ragione dell’accordo, il capitale sociale del gruppo Riva Fire Spa (la cassaforte del gruppo finita sotto sequestro,
ndr) è detenuto da società che, sia direttamente che indirettamente (Carini Spa per il 25%, Stahlbridge srl per il 35,1% e Utia Sa per il 39,9%), sono controllate da Emilio Riva». Il Patriarca «può decidere in solitudine sulle questioni di maggior rilievo per le società». Perché «detiene la maggioranza di voto sulla nomina o revoca degli amministratori delle società del gruppo» e sulle «operazioni di particolare rilevanza (acquisto o vendita di partecipazioni o stabilimenti industriali) che, pur rientrando nei poteri degli amministratori delegati o dei consigli di amministrazione delle società del gruppo, venivano considerate di carattere strategico dai membri attivi del consiglio».
Il “patto” — documenta l’inchiesta — prevede che nel Sinedrio di famiglia siedano membri con diritto di voto (Fabio, Claudio, Nicola, Cesare ed Angelo), membri onorari con diritto di intervenire nella discussione (Emilio, Adriano e Laura Bottinelli) e un osservatore (Emilio Massimo) senza diritto di voto». Ma il patto stabilisce soprattutto che il voto di Emilio, «in particolare sulla politica dei dividendi e il piano di investimenti, valga 60 su 100».
OLTRAGGIO ALL’AMBIENTE
Nella saga di acciaio e veleni dell’Ilva, nulla di ciò che appare è vero. Vale per i profitti del Gruppo esportati illegalmente all’estero e dall’estero fatti in parte rientrare con lo scudo fiscale. Vale per l’ambiente. Accade dunque anche con la nomina di Bruno Ferrante. L’ex prefetto è la “garanzia di legalità” offerta a Taranto e alla magistratura. Quella che convince il governo Monti ad approvare la nuova Autorizzazione ambientale e concedere la ripresa della produzione. Ebbene, ecco cosa scrivono oggi di Ferrante i magistrati di Taranto che lo indagano: «Ha operato e non impedito, con continuità e piena consapevolezza, una massiva attività di sversamento nell’aria e nell’ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali ed urbane. In particolare, IPA, benzo (a) pirene, diossine, metalli ed altre polveri nocive determinando gravissimo pericolo e cagionando eventi di malattie e morte nella popolazione».
ACCORDI DI CARTAPESTA
Si capisce così perché anche il “ cronoprogramma” di interventi che l’azienda si era impegnata a rispettare appena sei mesi fa diventi una burla. Annota l’Arpa Puglia il 13 febbraio scorso: «Allo stato attuale, la società Ilva non ha attuato, o comunque completato nei tempi prescritti, gli interventi relativi alla fermata delle batterie di cokefazione 3 e 4, al rifacimento dei refrattari a lotti della batteria 10, all’installazione dei sistemi di depolverazione e di chiusura edificio stock house delI’AFO/2, all’adeguamento dei sistemi di condensazione vapori di loppa AFO/4, alla realizzazione del sistema di aspirazione e desolforazione ghisa in siviera presso l’acciaieria ACC/1 e ACC/2, alla realizzazione di una nuova rete idranti per la bagnatura dei cumuli (attualmente in fase di progettazione), nonché all’adeguamento dei sistemi di monitoraggio in continuo per i camini delle aree a caldo ed alla realizzazione di sistemi di videosorveglianza e monitoraggio ambientale».