Marco Filoni, la Repubblica 27/5/2013, 27 maggio 2013
LA VITA IN GIOCO TRA DADI E CARTE
«Quando un giuocatore anzi che arricchirsi avvien che perda, ragionevolmente soffre un amaro dispetto, e concepisce un’avversione verso quel caso sempre cieco e sovente ingiusto, che decise contro di lui». Così parlò Francesco Bernardino Cicala, giovane filosofo del secolo dei Lumi. Il buon Cicala aveva conosciuto bene il gioco patologico, avendo raggiunto i baratri più degradanti ai quali può condurre. Ma ne era uscito. Tanto da ragionarci sopra ne Il gioco d’azzardo. Saggio filosofico e critico sulli giuochi di azzardo, pubblicato a Napoli nel 1790.
La passione per il gioco, l’ossessione per la scommessa, la promessa di felicità rappresentata dalla vincita ha difatti una lunga storia. Oggi ci sembra solo attualità e cronaca, fatta di videopoker, casinò online, sale bingo, super enalotto e gratta-e-vinci: una fioritura di offerte per divertirsi, passatempi festosi, popolarissimi e a basso costo. Eppure da divertimento il gioco può diventare problematico e patologico, come tutti sappiamo. Allora, visto che conosciamo bene il problema, da secoli ne riscontriamo gli effetti perversi, perché le sale giochi si affollano e l’azzardo prospera?
Una risposta, colta e meditata, da due recenti libri. Il primo, Gioco d’azzardo di Gianluca Cuozzo (in libreria per Mimesis, pagine 70, euro 4,90), affronta il tema da un punto di vista sociale. Attraverso la lettura di Benjamin, Dick e Auster, l’autore analizza il tempo ipnotico dei consumi, la società del rischio e dell’intraprendenza che è la nostra. Il secondo volume, Il calcolo dei dadi. Azzardo e vita quotidiana, è una riflessione di Marco Dotti (per l’editore O barra O, pagine 110, euro 12) che ricostruisce la cultura dell’azzardo attraverso i dadi, immagine bellissima e crudele. I dadi attraversano la nostra storia e civiltà: dalla tunica di Cristo, che i quattro soldati romani si giocarono subito dopo averlo crocifisso, lì ai suoi piedi, sino alla bomba di Nagasaki, sulla cui testata i soldati americani avevano disegnato due dadi dal lato in cui mostrano il sei – come se con quell’ordigno al plutonio, infallibile produttrice di morte, si volesse sancire una vittoria al gioco.
Ma c’è dell’altro: questi studi tirano in ballo anche categorie come casualità e calcolo, aspettative razionali e comportamenti irrazionali del giocatore che vive in una società dove il successo è spesso collegato all’intraprendenza e al rischio. Come del resto vengono chiamati in causa temi antichi come la divinazione, il caso, l’aleatorio. Ricorda Dotti che per i Romani la sorte era affidata agli oracula, i quali spesso non erano altro che parole in libertà, pronunciate a caso. Nel Medioevo cristiano si sostituì il Vangelo: aprendolo a caso, per tre volte, si sperava di trovarvi indicazioni per uscire da situazioni critiche. Anche San Francesco era solito ricorrervi, e secondo la sua biografia la sua sorte per la povertà fu indicata proprio così, con questo metodo. Ma, come sostiene Sant’Agostino, c’è sorte e sorte. Già, perché giocare non è faccenda da poco. L’azzardo è un laccio del diavolo, si legge nel De aleatoribus, unico scritto cristiano dell’antichità.
A distanza di secoli Georges Bataille definiva l’uomo come un essere privo di eternità. E, aggiungeva: l’uomo supplisce a questa mancanza di contrabbando, giocando (proprio come nella famosa scena del Settimo sigillo di Bergman, dove la Morte è sfidata a scacchi dall’uomo che era andata a prendersi). Ecco perciò la seduzione del gioco, quell’innata passione per il rischio, per il vincere o perdere. È l’antropologia del giocatore, così ben descritta da Baudelaire in Le Jeu: qui l’uomo che gioca è preda di un “fervore”, quasi una “febbre infernale” che lo spinge verso l’abisso che ha di fronte. Si pensi a Tomaso Landolfi, personificazione di questa febbre. O anche al protagonista del Fu Mattia Pascal di Pirandello, che mentre gioca nel Casinò di Montecarlo ammette di percepire “una forza diabolica”: dapprima indifferente, poi spettatore sospettoso, infine vinto dalla seduzione quando è ormai troppo tardi, in rovina. Non c’è voluttà senza vertigine, scrive Anatole France, che racconta la storia di due marinai appena scampati a un naufragio che si mettono a giocare a dadi sul dorso della balena dove avevano trovato riparo. Superstiti, appena strappati alla morte, eccoli lì a giocare: «Cosa c’è di più terribile del gioco? Dà, prende; le sue logiche non sono affatto logiche. È muto, cieco e sordo. Può tutto. È un Dio. È un Dio. Ha dei devoti e dei santi». Il gioco è un Dio e i giocatori stanno ai suoi piedi. Devoti. Credenti dell’azzardo. È come la fortuna invocata dal giocatore generoso che compare nello Spleen de Paris di Baudelaire: sedotto dalle promesse della notte e del gioco, si troverà a pregare Dio che il Diavolo mantenga la sua promessa.
Insomma, sembra non esserci un granché da fare. Se non ricorrere ancora all’esperienza di Francesco Bernardino Cicala che, riecheggiando le irresistibili tentazioni del povero Ulisse, invoca buone corde: «Attizzata dall’ingiustizia e dal capriccio della sorte, abituale diviene al giuocatore di simil temperamento; onde egli tratto tratto somiglia ad un misero furente, che oggetto di riso e compassione e non rade volte di orrore e di spavento, meriterebbe essere ignominiosamente ligato».