Ugo Bertone, Libero 24/5/2013, 24 maggio 2013
«AL PAESE SERVE L’INDUSTRIA» MA L’HA DISTRUTTA LA SINISTRA
Possiamo dire che è finito il periodo, durato più di un decennio, in cui si è pensato che l’Italia e l’Europa potessero fare a meno dell’industria». Fa piacere questa dichiarazione di Enrico Letta. Ma le accuse generiche lasciano il tempo che trovano: c’è Europa ed Europa, così come ci sono responsabilità precise su cui riflettere per non prendere nuove decisioni sbagliate. Tanto per cominciare, dov’era il giovane e promettente Enrico Letta poco più di un decennio fa? Era nientemeno che il ministro dell’Industria del governo D’Alema. Ve li ricordate i tempi dei «capitani coraggiosi», cioè la razza padana lanciata in Borsa alla conquista di Telecom Italia con la benedizione di D’Alema e di Enrico Cuccia? Allora la grande finanza, rappresentata da giovani leoni come Claudio Costamagna di Goldman Sachs (che diventerà una testa pensante dell’Ulivo prodiano) piuttosto che Federico Imbert di JP Morgan (advisor dell’Hopa di Chicco Gnutti prima di prestare i suoi lucrosi servigi al Monte Paschi) era di casa tra ministeri e grandi banche. Con un duplice obiettivo: completare il disegno delle privatizzazioni, così come era stato concepito dal pensatoio degli allievi di Beniamino Andreatta, in primis da Romano Prodi; sfruttare i benefici del calo dei tassi, resi possibili dalla rincorsa all’euro per garantirsi le munizioni finanziarie per un nuovo progetto.
Basta con la vecchia Italia dell’industria, condannata a subire la concorrenza di cinesi ed altri Paesi del terzo mondo. Basta con le tute blu, sinonimo di fatica e di bassi salari. Il futuro sarebbe stato popolato da trader in camicia bianca, giovanotti smanettoni sul computer, genietti della finanza in grado di guadagnare speculando sui mercati finanziari. O da fanciulle brave a sfilare sulla passerella indossando gli abiti cuciti da sartine del Bangladesh. Nel nome di questa illusione le privatizzazioni, lungi dal rafforzare i non molti gruppi industriali italiani di livello europeo, accelerarono l’addio dell’Italia alla grande industria. È in quella stagione che Carlo De Benedetti, già leader dell’elettronica italiana, si trasforma, passando dalla telefonia mobile, in editore, gestore di servizi (vedi la sanità) piuttosto che operatore nel ramo dell’energia elettrica. È in questi anni che, quasi in contemporanea con l’Olivetti, va in fumo la Montedison e con essa la fetta più rilevante della farmaceutica. È in quegli anni che i Benetton scoprono che è assai più lucroso e meno rischioso investire in autostrade che non sfidare i nuovi colossi della moda, da H&M a Zara. Ha ragione Letta ad invocare, come ha fatto ieri «una nuova leadership europea per grandi obiettivi: ricavare entro il 2020 il 20% di Pil dal manifatturiero. È uno sforzo importante, ma dobbiamo farlo se vogliamo che l’Europa sia ancora libera nel mondo e se vogliamo che noi italiani possiamo giocare ancora un ruolo importante». Ha ragione, ma è bene che l’Europa non sia un alibi. Nel corso degli ultimi dieci anni o qualcosa di più, la grande industria tedesca ha saputo recuperare posizioni. Nonostante la strategia a delocalizzare produzioni nell’Est Europa per garantirsi un costo del lavoro più basso, i big dell’auto, della metallurgia e della chimica non hanno mai indebolito le basi industriali in patria. Grazie ad un patto di ferro tra imprenditori e sindacato (si badi bene, sindacato non una miriade di sigle che fanno politica in azienda) benedetto dal governo: garanzia dei posti di lavoro in cambio di flessibilità. Il tutto benedetto da una politica che ha garantito minor pressione fiscale in cambio di più investimenti. Certo, anche la Germania soffre di fronte alla riscossa giapponese o al pressing dei colossi Usa che hanno scoperto che ormai è assai più conveniente produrre in Alabama in Iowa piuttosto che in aree asiatiche o sud americane ad alto rischio. Ma ve l’immaginate Volkswagen,Bmw o Siemens che corrono a investire in telefoni piuttosto nei gestori dell’energia elettronica. O per controllare il Bingo?
Perché da noi sì? Forse perché la nuova sinistra, ansiosa di cancellare le origini di classe, ha mostrato lo slancio dei convertiti con il plauso e l’appoggio dell’intellighenzia culturale e del sindacato. L’operaio, insomma, andava bene come un reperto da vintage. Il figli del proletariato si sarebbero occupati di arte, turismo e, naturalmente di ecologia. Guai a pensare, come gli americani, a cercare nuove fonti di energia o a creare tunnel e porti, come i barbari del Nord.
Ora si vuole cambiare registro. Meno male: come non essere d’accordo con il premier quando sottolinea che è urgente «ridare slancio e sforzo all’industria»? Senz’altro la pensano così quelle decine di migliaia di imprenditori che in questi anni non hanno voltato le spalle all’industria manifatturiera che, nonostante tutto, è ancora la seconda dell’Europa continentale e batte ancora la Germania, sul fronte dell’export, in 1.215 prodotti (dato della Fondazione Edison). Un’Italia di medie imprese che, dati di Mediobanca, alla Germania invidia un fisco più leggero, infrastrutture efficienti e una scuola capace di preparare i giovani alle esigenze di produzioni industriali hi tech, piuttosto che disc jockey, grafici pubblicitari o l’ennesima infornata di avvocati a caccia dell’impiego pubblico (che non c’è più). Quegli industriali affollano ancora (seppur sempre meno) le assemblee imprenditoriali. Ma, caro premier, volga lo sguardo indietro, a quell’assemblea di Confindustria di una decina di anni fa o poco più a cui partecipava come promettente testa d’uovo dell’Italia progressista. Rispetto ad allora non c’è più la Fiat che, al di là delle smentite, muove a piccoli (mica tanto) passi verso altri lidi senza che nessuno gliene chieda spiegazione alcuna. E cominciano a scarseggiare altri campioni di quell’Italia che fu leader nella meccanica, nel tessile abbigliamento o nella stessa industria del mobile. In cambio, abbondano i campioni «politically correct» dell’Italia dei servizi, dalle Ferrovie all’Enel. Gente che nessun siderurgico bresciano o rubinettaio dell’Ossola giudicherà mai un collega.