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 2013  maggio 25 Sabato calendario

ORSI & TORI – Mercadona è la più grande catena di supermercati in Spagna. Aprendo il bilancio si scopre che fattura quasi 20 miliardi di euro e guadagna 710 milioni prima delle tasse, ma la sorpresa è l’utile dopo le tasse: 510 milioni

ORSI & TORI – Mercadona è la più grande catena di supermercati in Spagna. Aprendo il bilancio si scopre che fattura quasi 20 miliardi di euro e guadagna 710 milioni prima delle tasse, ma la sorpresa è l’utile dopo le tasse: 510 milioni. Vuol dire un’aliquota di circa il 35%. Se fosse un’azienda italiana il suo utile diventerebbe più o meno di 350 milioni. «Sì, da noi in Spagna si pensa che le società per svilupparsi debbano subire una tassazione ragionevole», spiega uno dei due dirigenti che Mercadona ha in Italia per comprare 300 milioni di prodotti italiani all’anno. «In Italia la grande distribuzione è molto frammentata, ma le aziende italiane sono le più brave nel trattare i prodotti freschi. Ed Esselunga è l’azienda che ha il primato in Europa per fatturato al metro quadro, circa 16 mila euro all’anno». Mercadona ha 1.500 negozi. Esselunga solo 150, eppure fattura 6 miliardi. Quindi la società fondata e gestita dall’80enne Bernardo Caprotti è proporzionalmente più efficiente ma la pressione fiscale italiana non le consente di avere lo stesso sviluppo di Mercadona, che ogni anno apre 60 negozi e ne ristruttura 55, potendosi preoccupare di molti aspetti sociali connessi alla grande distribuzione, per esempio la ristrutturazione completa a suo carico dei mercati comunali, dove apre negozi accanto a quelli dei piccoli bottegai, alla ricerca di una convivenza possibile fra chi ha grandi capitali e organizzazioni globali e chi sta dietro il banco con la moglie o i figli. La lezione Mercadona dovrebbe essere assunta come parametro da parte del governo per capire in quale direzione l’Italia deve assolutamente muoversi se vuole che l’attività economica torni a crescere. L’altra faccia di questa medaglia è la notizia che Sergio Marchionne vuole trasferire la sede di Fiat Industrial a Londra. «Ogni imprenditore, in una economia globale, ha il diritto di scegliere dove può realizzare il miglior profitto», si è sbilanciato a dire, questa volta, il neopresidente (senza tessera?) di Scelta Civica, il senatore a vita Mario Monti, interrogato da Bruno Vespa: «Sarebbe bene che la Fiat rimanesse in Italia come sede fiscale, ma l’orientamento di Marchionne è coerente con tutte le aziende globali». Appare pertanto un po’ patetica la dichiarazione in sede Confindustria del ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato: «... chiederò a Marchionne di mantenere in Italia la sede legale». Chissà come se la riderebbe il ministro inglese delle Finanze se avesse l’avventura di leggere questa dichiarazione sentimentale: da sempre il governo di sua Maestà la Regina usa la leva fiscale, sia in campo finanziario che industriale, per competere con il resto dell’Europa. Ha quindi ragione il redivivo e ormai politico integrale Monti quando aggiunge che senza un coordinamento fiscale per tutta l’Europa casi come quello possibile della Fiat saranno inevitabili? Se si guarda agli Stati Uniti d’America, ammesso che l’Europa diventi uno Stato federale, il professore non ha ragione: fra gli Stati dell’Unione la competitività fiscale è massima, rientrando in quel principio che la concorrenza deve pervadere ogni settore. Così nessuno negli Usa si scandalizza se lo Stato di New York o del Connecticut compete con il New Jersey per avere la sede dell’Ibm o della General Electric. Il fatto è che gli americani, anche quelli diventati tali dopo l’immigrazione, si sentono tutti cittadini dello stesso Stato federale, mentre i cittadini del continente europeo, anche quelli che hanno da oltre dieci anni la stessa moneta, si sentono cittadini del loro Stato, che conserva ancora tutte le peculiarità storiche di secoli, e pochi si sentono in dovere di cooperare, sia pure nella concorrenza. I tedeschi sono tedeschi e se non fanno una guerra con i cannoni la devono fare con le armi economiche altrimenti non si sentono bene; gli italiani se non rifiutano il rigore organizzativo (non quello economico, che stanno pesantemente subendo) per improvvisare sempre e su tutto non si sentono creativi; gli olandesi pensano ancora di avere, dal loro piccolo Paese con i mulini a vento, un impero perché alcune delle più grandi multinazionali hanno cittadinanza olandese e quindi ritengono di avere diritto a guidare la Banca centrale europea, sia pure in chiaro condizionamento tedesco; gli spagnoli lo stesso, pensano che la loro proiezione sia al di là dell’oceano perché nella storia hanno saputo imporre la loro lingua quasi tutto il Sud America... Quindi l’Europa difficilmente diventerà uno Stato federale e non è certo imponendo, come pensa Monti, una fiscalità identica che si potranno eliminare squilibri fra un Paese e l’altro. Anche perché, e sembra incredibile che persone sicuramente intelligenti come quelle che frequentano Bruxelles e pensano di gestire l’Europa non tengono conto che questo è il Vecchio continente, non il mondo che oggi è la dimensione unica con il processo di globalizzazione che si è verificato. Basta un piccolo esempio per sorridere rispetto alla allarmante sprovvedutezza di chi sta e frequenta Bruxelles: il pensiero di poter avere risultati positivi dall’imposizione di una tassa come la cosiddetta Tobin, con l’aggravante che il governo Monti ha pensato addirittura di poterla imporre con successo in Italia prima di tutti gli altri Paesi europei. Il risultato per il mercato finanziario italiano è sotto gli occhi di tutti: vi si effettuano soltanto investimenti e transazioni istantanei perché la Tobin non si applica a queste operazioni, mentre gli investimenti a medio e lungo termine vengono fatti sugli altri mercati. Se poi sarà l’Europa intera ad applicare la Tobin (ma c’è da dubitarne) a trarne vantaggio saranno Wall Street e la City di Londra, perché è sicuro che con la loro politica di vantaggio fiscale competitivo gli inglesi non cederanno mai alle richieste di Bruxelles. Il problema per l’Italia, quindi, rimane quello che ormai è nella coscienza di tutti, ma che nessuno si impegna a perseguire direttamente: ridare fiato al Paese riducendo di almeno 4 punti (in euro almeno 50 miliardi) la pressione fiscale con il taglio della spesa pubblica (cosa sono 50 miliardi a fronte di una spesa annuale di 800 miliardi?) e tagliando il debito con la vendita di asset immobiliari. Senza prendere il toro per le corna, varando provvedimenti immediati e inequivocabili in queste direzioni, anche il governo guidato dal serio e capace Enrico Letta finirà per accompagnare ancora più verso il basso l’Italia. Le cui condizioni sono assai più gravi di quello che si pensa, perché l’habitat europeo è ugualmente ammalato. Per rendersi conto di quale sia la vera situazione conviene che i lettori di questo giornale, ma soprattutto i politici e il governo, leggano attentamente l’analisi all’interno di questo numero di Guido Salerno Aletta. Quando Giuliano Amato, che comunque di economia se ne intende, l’ha letta, è rimasto di ghiaccio, tanto la situazione è più grave di quello che si pensa. In sintesi: 1) nel 2012 all’economia reale sono mancati 200 miliardi di euro; ad aprile di quest’anno ne mancano già 211; 2 ) il gap di domanda interna determinato dal pagamento degli interessi sul debito pubblico è stato pari a 86,7 miliardi, equivalenti al 5,49% del prodotto interno lordo (pil); 3) se l’Italia dovesse, nel 2014, applicare il Fiscal compact, l’avanzo primario necessario a pagare gli interessi dovrebbe essere pari al 9% del pil, pur continuando ad avere un deficit del 3% invece del pareggio; 4) nel 2012 la differenza fra depositi da clientela interna e impieghi a favore di famiglie e imprese è stato di ben 101 miliardi di euro, tutti impiegati per la sottoscrizione del debito pubblico; 5) nonostante l’avanzo commerciale (beni e servizi) pari a 17,2 miliardi, in miglioramento di ben 40,2 rispetto al disavanzo del 2011, il saldo delle partite correnti (bilancia dei pagamenti) è stato negativo per 11,6 miliardi, principalmente per la fuga di capitali da uno Stato fiscalmente perverso. Il totale è appunto pari a 199,9 miliardi e ad aprile di quest’anno si è già a 211. Come dire che il Paese sta sprofondando. In queste condizioni all’Italia serve uno shock immediato e positivo pari almeno al 20% del pil per riprendersi, sostiene Salerno. Di fronte a dati come questi, anche tenendo conto che i calcoli matematici incorporano l’influenza dello stato d’animo degli italiani sull’economia e che se la fiducia riprendesse probabilmente basterebbe anche assai meno del 20%, la sospensione dell’Imu e la staffetta per il cambiamento generazionale appaiono utili come le cure palliative ai malati di tumore. Il presidente Letta, il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, che i dati li conosce e sa interpretarli, devono parlare chiaro in primo luogo ai due partiti antagonisti che sostengono il governo. Le ricette da adottare per lo shock positivo sono ormai ben note, grazie al lavoro di vari economisti come Francesco Giavazzi, Alberto Alesina e quelli dell’associazione L’Italia c’è. Appena nei prossimi giorni sarà chiusa la procedura di infrazione per il superamento dei parametri di Maastricht, il governo dovrà chiedere (o meglio pretendere) da Bruxelles almeno due anni di tolleranza sul superamento del deficit al 3% così come è stato concesso a Francia e Spagna. Vestendo gli abiti del politico al 100%, il presidente di Scelta Civica, Mario Monti, ha risposto a Vespa che le idee di Giavazzi e Alesina sono intelligenti ma che spesso gli economisti ragionano rispetto a un mondo ideale, e poi nella pratica quelle idee non sono attuabili. Come dire che gli economisti, categoria alla quale il professor Monti risulta ancora iscritto visto che ha domandato a se stesso se aveva o meno la tessera di Scelta Civica concludendo di no, sono degli idealisti nelle nuvole. Vespa lo ha incalzato ricordandogli che Giavazzi è stato da lui chiamato a Palazzo Chigi come consulente per individuare i sussidi alle aziende da tagliare. Ma Monti ha ribadito che appunto, in sostanza, gli economisti fanno teoria. In realtà, il lavoro di Giavazzi («sì, lo abbiamo esaminato con qualche altro esperto...») si è concluso addirittura con la scrittura di un disegno di legge che è rimasto nei cassetti della Presidenza del Consiglio, mentre chi lo ha preso sul serio è il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, che a nome degli imprenditori ha dichiarato di essere disponibile a che i sussidi vengano tagliati, visto che sono molto spesso improduttivi se non clientelari, e a che i risparmi siano destinati alla riduzione della pressione fiscale per le aziende e i lavoratori. Il presidente Letta e il ministro Saccomanni dovranno prendere al volo questa disponibilità, condivisa dai sindacati, e con determinazione procedere ai primi tagli proprio dei sussidi come vero inizio, serio e concreto, di un programma ampio di tagli della spesa pubblica fino a liberare appunto almeno 50 miliardi necessari per dare una prima scossa all’economia alleviando aziende e lavoratori. Giavazzi-Alesina hanno dimostrato che 1 punto di pressione fiscale genera altri 2 punti di recessione. Le loro ricerche non sono fantasie ma dati concreti su cosa è successo nei vari Paesi. Lo shock positivo di cui il Paese ha bisogno passa appunto attraverso il varo immediato di un programma di tagli della spesa e uno altrettanto deciso di tagli del debito, come del resto continua a suggerire anche il presidente della Bce, Mario Draghi.