Paolo Mastrolilli, La Stampa 27/5/2013, 27 maggio 2013
INSEGUENDO GLI URAGANI NELLE PRATERIE DEL NEBRASKA
«Se poi qualcuno viene colpito da un fulmine, noi siamo addestrati per la rianimazione». Utile, ma poco rassicurante, l’accortezza di Bill Reid. Perché mentre stai partendo per andare a caccia di tornado, non è piacevole sentirsi ricordare tutti i modi in cui potresti lasciarci la pelle.
Solo una settimana fa l’enorme tromba d’aria di Moore ha ammazzato 24 persone, eppure non ha fermato il turismo dell’adrenalina. Bill è il direttore della gita di undici giorni che la Tempest Tours ha organizzato per andare in cerca di guai nella «Tornado Alley», il corridoio dal Texas al North Dakota dove il vento ogni anno fa strage. Il proprietario della compagnia, Martin Lisius, è il personaggio che ha ispirato il film «Twister», raccontando per la prima volta al grande pubblico la leggenda degli «storm chasers», gli inseguitori di tempeste. «Lo facciamo - spiega Martin - per passione, studio e amore della natura. Infatti collaboriamo con il National Weather Service per fornire dati sui tornado, e il nostro scopo è istruire ed educare i clienti che viaggiano con noi».
La stagione delle trombe d’aria è breve, da aprile a luglio, e decine di curiosi vengono a vederle. Il tour a cui ci siamo iscritti è il più bello: 3.395 dollari, per andare ovunque porti il vento. L’appuntamento per la partenza è in un albergo di Oklahoma City, dove alle 10 del mattino Bill Reid dà le istruzioni ai partecipanti: «Vengo da Los Angeles e ho un master in climatologia. Faccio questo lavoro dal 1991, per pura passione, e a voi chiedo la stessa dedizione. Il meccanismo lo conoscete: ogni mattina alle dieci facciamo il briefing sulle condizioni meteo, e decidiamo la rotta, in base a dove ci sono più possibilità di trovare tornado. I tre van su cui viaggiamo sono attrezzati con computer e radar, per seguire costantemente le variazioni del tempo, e un sistema gps ci permette di raggiungere i luoghi scelti inserendo le coordinate. A bordo non sono permessi alcool, droga o armi da fuoco, perché dovete essere pronti e reattivi. Ci fermiamo solo per fare pipì e benzina. Quando incontriamo i tornado, ci teniamo a distanza di sicurezza: se vedete volare le mucche, vuol dire che siete troppo vicini. Se però ci sorprendono all’aperto, buttatevi a terra e riparatevi la testa».
Il gruppo che ascolta preoccupato Bill è folto e vario: 18 persone venute da tutto il mondo. Thomas è un capitano dell’esercito tedesco, volato apposta da Rostok con la fidanzata Frauke; Julie è australiana, e di mestiere gestisce una compagnia di trasporti; Tom fa il decoratore di interni a Londra e ha un figlio di 10 mesi, che naturalmente è rimasto a casa con la mamma. I più normali sono Brian e Becky Smith, coppietta del Maryland in cerca di avventure: «Ci siamo sposati alle Hawaii - racconta Brian - sopra un vulcano attivo. Quella fu la prima volta in cui mia moglie cercò di liberarsi di me. Ora ci riprova con i tornado, infatti è stata lei a regalarmi questo viaggio». Bill neanche sorride, e chiude il briefing annunciando la rotta: «Oggi il luogo più promettente è al confine tra Kansas e Nebraska: sono sei ore di strada, perciò è meglio sbrigarci».
Dentro al van, per ingannare la noia, tiene lezione Chuck Doswell, un signore grasso col pizzetto. Ha un dottorato in meteorologia, e lo staff se lo porta dietro per istruire e terrorizzare i clienti: «Chiunque dica di aver visto il peggio della natura mente. L’atmosfera può combinare guai sempre più gravi, e può farlo anche oggi. L’unica cosa prevedibile del tempo nelle praterie del Midwest è la sua imprevedibilità: un tornado ci mette venti minuti a formarsi, anche se ora il cielo è sereno». Chuck è triste per il disastro di Moore, ma lo prende da scienziato: «La natura è neutrale, indifferente agli uomini. Siamo noi che dobbiamo adeguarci a lei, come diceva Darwin, se vogliamo sopravvivere. Lo stiamo facendo abbastanza bene, perché in altri tempi un tornado come quello della settimana scorsa avrebbe fatto strage: 24 morti, invece, sono relativamente pochi. Il punto su cui bisogna lavorare, adesso, sono i rifugi. In Oklahoma non ne abbiamo abbastanza. Non usiamo neppure costruire le cantine, nelle case. Se vogliamo sopravvivere nel cuore della “Tornado Alley”, però, è venuto il momento di cambiare abitudine».
Lungo la strada sono suggestive anche le piazzole per la sosta: Cowboy Plaza, Cherokee Stop, Indian Trail. Il van passa il confine tra Oklahoma e Kansas, e poi anche quello fra Kansas e Nebraska. La costante è il vento, che muove l’erba alta come un phon sui capelli. Ma il sole non si lascia nascondere dalle nuvole.
Dopo oltre quattrocento miglia di viaggio, anche il capitano tedesco dorme sulla spalla della fidanzata. L’highway però è finita, e Bill ha imboccato una di quelle che William Least HeatMoon chiamerebbe «strade blu». Porta in direzione di Genoa, un paesello di 1.062 abitanti, che qualche italiano deve aver colonizzato un secolo e mezzo fa. L’unica costruzione in pietra qui è una chiesa, cattolica, probabile retaggio dei fondatori. Bill supera il paese e gira verso una strada sterrata che conduce su un costone: in fondo si vedono i nuvoloni più grigi della giornata. Dopo due miglia però si ferma, deluso: «Falso allarme». Spiega che il radar gli aveva dato l’indicazione di movimenti atmosferici promettenti: temperatura, umidità, venti, e altre robe che ci vorrebbe il master per capirle. «Sta per succedere qualcosa, ma non qui».
Torniamo sulla strada per Genoa, viaggiamo verso Ovest: Martin Lisius, che sta seguendo la missione dalla sede della compagnia in Texas, suggerisce di andare in direzione del tramonto. Per fortuna in giro non c’è polizia, perché la velocità e le manovre che facciamo sarebbero da arresto. «Venti minuti», ripete Chuck, «può cambiare tutto in venti minuti». A un distributore di benzina un vecchietto ci riconosce: «Siete storm chaser? Vi auguro di essere venuti qui per nulla».
Il cielo però resta immobile, e Bill sembra perdere la speranza. Si avvia verso Grand Island, il paese dove ha prenotato le stanze per la notte in un motel. Corriamo affianco un treno, lungo la ferrovia dove le stazioni sono silos per caricare il grano. Sono le sette e venti della sera, quando Bill sterza su una viuzza verso Ovest e accelera: «Martin aveva ragione», dice a voce alta. Fuori dal finestrino, sulla sinistra, compare un nuvolone scuro e altissimo, che sta prendendo la forma di un imbuto. Brian e Becky si stringono la mano, chiedendosi perché siamo l’unica macchina che corre in quella direzione. Il van accelera, facendo tremare le corna di toro montate come un trofeo sopra il cofano. La nuvola diventa sempre più scura, incombente. Passiamo il cartello di un paesino chiamato Hazard, 62 abitanti e assai più mucche. Abbiamo percorso 54 miglia a scapicollo, da quando Bill ha notato sul radar il «blip» che lo ha rianimato. Lui lo chiama così, «blip», ma a Moore è stato il segnale della morte. Guarda fuori dal finestrino e accelera; sul sedile vicino al guidatore un altro membro dello staff osserva la mappa del gps, per capire dove bisogna svoltare per andare in direzione della tempesta. Bill imbocca una stradina sterrata, e anche le mucche si mettono a correre: «Tornado on the ground». Ha toccato.
Si vede l’imbuto che è sceso in terra, come una mano che cerca di prendere qualcosa. Bill frena: siamo ad almeno sei miglia di distanza, in sicurezza. Pare il cinema, senza le esagerazioni di Hollywood. Tiriamo fuori macchine fotografiche, iPad, telecamere: «Sta morendo, fate in fretta», dice Bill. Questione di minuti, e l’imbuto torna ad alzarsi. Impressionante, pauroso, ma lontano dalla terra. Lascia spazio a una tempesta di fulmini, che fa a gara col sole per offrire gli ultimi lampi di luce prima della notte. Brian e Becky si sentono sollevati, come le 62 anime di Hazard. La natura indifferente ha dato spettacolo, senza sapere perché.