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 2013  maggio 26 Domenica calendario

NEI BAR DI TORINO, TRA COCCODRILLI E PESCI-GATTO"

Dopo trent’anni esatti di esperienze narrative, posso dire con un soprassalto di stupore e di pudore che non mi sento nato in un luogo preciso, ma tra la gente. E che la contemporaneità, l’affrontare la vita d’oggi, sono stati l’unico sale della mia vita.

Ma dove sono andati a finire diversi miei personaggi, che forse erano poetici vent’anni fa, ed oggi risultano quasi preistorici? Quando scrissi due romanzi ambientati nel mondo operaio, Gli anni del giudizio nel ’58 e Una nuvola d’ira nel ’62, questo mondo operaio risultava ben delineato, percorribile, pronto ad essere esplorato, persin voglioso di essere esplorato. Oggi, quei personaggi mi risultano cristallizzati in una lontananza non più superabile. (...)

Via via cambiarono i quartieri, i mercati, i cibi, le abitudini, nacquero mistilinguismi dialettali che raggrumano espressioni di regioni diverse, il leggendario esercito dei «soldatini blu» si frantumò in una serie di battaglioni per nulla simili tra di loro. (...)

Per capire, per scrivere, anch’io dovetti cambiare. Mi si irritò la stessa scrittura sulla pagina, tentata di farsi più testimoniante e sulfurea. Anche questo mi venne rimproverato, ma chi ha attraversato gli anni della nostra città di frontiera sa che è cambiata non solo la scrittura, è cambiato persino il nostro modo di esprimersi al caffè. Le grandi migrazioni hanno snaturato Torino? Oppure l’anno costretta ad un salto immane di coscienza, di esame su e dentro se stessa?

Non lo so. Vorrei dire anche: mi proibisco di giudicare. Debbo ancora e finché mi restano forza e ispirazione, testimoniare. È il mio unico ruolo.

La prima cosa che ricordo d’aver notato è il cambiamento di voce nella città. Il torinese parlava sempre più piano, l’immigrato, dopo infiniti patemi e sussulti, tendeva ad alzare il tono. Non è una metafora, questa, è un dato di fatto. Ho assistito ai processi di angosciosa tentazione linguistica, l’acquisizione di uno sbagliato «cerea», i tentativi di pronunziare un «monzù». E subito dopo la mai tranquilla, anzi affaticata e talvolta provocatoria accettazione della propria diversità linguistica, o addirittura tonale. E così, mentre il sussurro dialettale torinese diventava più fioco, il dilagare di accenti diversi sposava, testimoniava di diverse realtà sociali, umane, individuali o collettive, e quindi obbligava un narratore a fare i suoi conti con la lingua scritta, sempre bisognosa di linfe nuove e credibili.

Credo che questa realtà, questo magma tutt’altro che giunto al suo approdo, siano stati avvertiti da tutti: ma c’è chi si è rifugiato nell’affresco, nell’acquerello, e c’è chi vi ha intinto i suoi pochi strumenti espressivi, a costo di renderli incandescenti, a costo di consumarli per sempre.

Io ho passato giornate intere in bar periferici, assistendo a mediocrissime esibizioni di biliardo ma ad interessantissimi processi linguistici e mentali, perché non c’è lingua che non sia rivelazione di un cervello pensante o non pensante. Quei pomeriggi nei bar hanno costituito la mia seconda università, occulta ma più redditizia di quella primaria e ufficiale.

Registravo lo sfaldarsi degli stessi gerghi di barriera e di fabbrica, che avevano resistito tenacemente per decenni. Porgevo l’orecchio ad interiezioni, a espressioni umoristiche o blasfeme, a giudizi sul lavoro, le donne, il gioco, la politica, che creavano ondate di un nuovo, ancora rozzo ma affascinante, linguaggio italiano o paraitaliano o italiano futuribile, correggibile e però autentico.

Non tutto mi serviva, ma tutto potevo tesaurizzarlo in vista d’una costruzione di frase adatta. Non tutto era allettante, ma tutto faceva da «humus» per un lavoro a tavolino. La lingua è uno strumento crudele. (...)

Torino in trent’anni ha avuto più storia che non in quattro secoli. Ma anche noi, qui ed ora, abbiamo avuto più storia e più occasioni per meditarla e restituirla in pagine leggibili. Chi ha nuotato negli anni di questa città sa benissimo, sa perfettamente d’aver dovuto farsi ora coccodrillo ora pesce-gatto ora finto turacciolo galleggiante, ora scarpa vecchia che abbocca all’amo e talvolta, felicemente, farsi amo per pescare altre scarpe vecchie.

Qui l’uomo ha affrontato se stesso ed i propri fantasmi e le proprie ambizioni con una famelicità che altrove non poteva certo nascere. Qui anche l’uomo di lettere ha dovuto misurare i suoi simili come un infermiere pietoso lava e accudisce i malati. (...)

È con molta tranquillità che confesso: non avrei mai scritto certi romanzi se non mi fosse toccato di vivere in questa città. Io sono un piemontese con molti innesti lontani e anomali. Guido Piovene addirittura mi giudicò uno scrittore non italiano, che non discende da alcun lombo delle genealogia letteraria italiana. Mi ha sempre onorato e divertito questo parere emesso da uno scrittore ed un uomo tra i più fini che la nostra società letteraria abbia avuto.

Ed è proprio a Piovene che bisogna ritornare se intendiamo portare avanti un’esplorazione sui fenomeni culturali e sui cambiamenti accaduti a Torino. Il suo famoso Viaggio in Italia , condotto come altissima inchiesta giornalistica tra il ’53 e il ’56, lo si può studiare oggi quasi fosse un saggio settecentesco. È stato un italiano come Piovene a condurre l’ultima grande esplorazione così cara ai viaggiatori del mondo classico del nostro Paese.

I piemontesi, ed i torinesi in particolare, lui li vide ancora come uomini in possesso più di opinioni che di idee, li colse nei vezzi, negli atteggiamenti, nella solidità laboriosa come avrebbero fatto Goethe o Stendhal. È il ritratto di un’Italia, di una Torino, che il subbuglio della seconda metà del nostro secolo ha letteralmente archiviato. Oggi Piovene, che non era un nostalgico, non piangerebbe certo su una determinata civiltà perduta, starebbe anzi attento ai nuovi fenomeni. Perché, come ogni scrittore vero, sentirebbe gli stimoli sfidanti ad afferrare questo mondo per la gola, ad interpretarlo, non a coricarcisi sopra come su un divano.

Nel crogiuolo così vasto e talora informe dei cambiamenti torinesi, le testimonianze, viste attraverso il romanzo, non sono state molte. Dalle fabbriche uscivano diari, uscivano rapporti e racconti, ma tutti come appiattiti da un’urgenza che badava al fatto, e poco all’uomo, benché quest’uomo fosse originato e fosse fucina degli stessi fatti che lo riguardavano. Un’antologia delle scarse opere letterarie che toccano i mutamenti della nostra metropoli non sarebbe davvero molto folta e probante.

Per fortuna, in una città ingegneresca come la nostra, le testimonianza possono venire raccolte presso altre fontane. E chi ha conosciuto i cambiamenti, chi li ha vissuti sulla propria pelle e sulla propria lingua parlata e scritta, non abbisogna di perdersi in eccessive accademie verbali.

Io ho assistito ad un dialogo certamente eccezionale tra due operai, sempre in quel bar con biliardo e circostante periferia a cui accennavo prima.

Il primo, piemontese ma di provincia, esce in una frase che è tipica d’un nostro vocabolario fitto di luoghi tanto comuni quanto comunicanti.

Dice: «Morire non si morirà, ma saranno grandi mutamenti». E intanto batte una biglia di sponda. L’altro studia, poi risponde: «E che vuol dire? Che mi stai significando?».

«Che morire non si morirà, ma saranno grandi tormentosamenti». «Tormentosamenti come dolori?». «Tormentosamenti come tormenti». «Allora tormenti come guai, come accidenti tui». «Tuoi» «Tui» «Morire non si morirà, ma saranno grandi patimenti», rifà la litania il torinese.

«Patimenti a te, e vaffanculamenti a tutti voialtri», concluse e rise l’altro.

Il piemontese rialzò la testa e ripete quasi per sé solo: «Morire non si morirà ma saranno grandi vaffanculamenti. Ma sì. Bisogna che me lo ricordi. Funziona».