VARIE 26/5/2013, 26 maggio 2013
APPUNTI PER GAZZETTA - LA CRISI DELL’ILVA
"Se si ferma un’azienda di questo tipo possiamo dire addio a tutta l’industria siderurgica e avremmo problemi con l’industria meccanica". E’ quanto dichiara, a Sky Tg 24, intervenendo all’Intervista di Maria Latella, il ministro dello Sviluppo, Flavio Zanonato, in merito alla vicenda Ilva dopo le dimissioni choc del consiglio di amministrazione. Domani vertice del governo con i rappresentanti locali.
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Il polo dell’acciaio, e l’Ilva in particolare, "deve rimanere italiano, dobbiamo fare di tutto per farlo rimanere italiano. E’ una questione strategica: dalla siderurgica dipende la meccanica, per rimanere competitiva deve avere acciaio prodotto in luoghi abbastanza vicini", ha aggiunto Zanonato. Secondo il ministro l’Ilva "deve essere risanata. L’alternativa non esiste. Non è che se chiudiamo l’Ilva risolviamo il problema ambientale, ma come è successo a Piombino o a Bagnoli rischiamo un enorme degrado senza aver affrontato il problema produttivi e ambientale. C’è una sola strada, risanare, e continuare a produrre acciaio che è assolutamente necessario per nostra economia".
"Non mi pare ci siano le condizioni" per il commissariamento, ha aggiunto Zanonato. "Domani e poi nell’incontro con Letta martedì - ha dichiarato - discuteremo a fondo tutti gli aspetti della faccenda
e prenderemo in mano la situazione perchè non vogliamo che chiuda questa attività".
Zanonato ha poi concluso: "Il 31 di questo mese - ha spiegato Zanonato - ci troveremo proprio per discutere di questo. La riunione è stata fissata prima della crisi ulteriore dell’Ilva per coordinare le attività del siderurgico. Bisogna tener presente che l’acciaio non è un prodotto soltanto da altoforno in Italia, in misura maggiore è prodotto da forno elettrico. Penso che ci siano molti terreni su cui si può discutere insieme, bisogna avere una strategia comune a livello nazionale". L’Ilva, ha ricordato, "è una grandissima azienda e produce 5 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, può arrivare a 8 in base alle disposizioni Aia e mira ad arrivare a 7 quest’anno".
(26 maggio 2013)
PEZZO DI SOFRI SU REP DI SABATO 25/5/2013
TANTO piovve, che diluviò. In applicazione di una legge del 2001 che prevede «la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente», la Gip Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della Procura di Taranto, ha deciso un sequestro senza precedenti: non degli impianti o dei prodotti, come già avvenuto, ma del patrimonio dei Riva, nella misura enorme di 8 miliardi e 100 milioni. Per intenderci, il doppio della restituzione dell’Imu… Qualunque decisione prenda il consiglio d’amministrazione convocato per stamattina, non c’era e non c’è un futuro per l’Ilva con la proprietà dei Riva. Il decreto “salva-Ilva”, in vigore da dicembre, prevedeva, in caso di inadempienza, fino al passaggio all’amministrazione straordinaria. Fumo negli occhi, allora, diventato ora reale e urgente, e passato da Clini e Passera a Orlando e Zanonato. Un’amministrazione straordinaria con una ridotta continuità produttiva e una effettiva bonifica costa. I miliardi sequestrati (ammesso che la Finanza li trovi tutti) non sono comunque disponibili, e il saldo dei materiali dissequestrati – circa 800 milioni – non basta. Se l’imminente piano europeo, cui lavora l’italiano Tajani, prevedesse uno speciale finanziamento bancario, non lo attuerebbe comunque, con lo spauracchio di un sequestro così enorme, senza un impegno
del governo.
INTANTO nelle 46 fitte pagine del decreto di sequestro si trova una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e della sua influenza sull’umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio.
Il provvedimento tocca i responsabili delle misure di prevenzione degli “incidenti rilevanti” (che mettono a repentaglio immediato o futuro persone e ambiente dentro e fuori da uno stabilimento, coinvolgendo più sostanze pericolose), della sicurezza dei lavoratori, e della tutela di ambiente e popolazione. Sono Emilio Riva e i figli Nicola e Fabio, l’ex direttore Capogrosso, il dirigente Archinà (indagati anche per associazione a delinquere, tutti già agli arresti, salvo Fabio latitante a Londra), il presidente Ferrante, i dirigenti Andelmi, Cavallo, Di Maggio, De Felice, D’Alò, Buffo, Palmisano, Dimastromatteo. Fra i reati loro imputati, commessi fra il 1995 e oggi, si cita l’omissione di un piano di emergenza nell’eventualità di un incidente rilevante: a un’obiezione su questo punto, responsabili dell’Ilva replicarono che il rischio di incidente rilevante equivaleva a zero, e questo
avvenne alla vigilia del giorno del tornado! Si sottolinea come l’azienda abbia ignorato le disposizioni dei custodi nominati dal giudice. Si ricorda la morte di tre operai nel giro di pochi mesi. La lista è lunga: emissioni cospicue nell’area dei rottami ferrosi; sversamento delle scorie liquide di acciaieria sul terreno non pavimentato; rilascio di sostanze tossiche dovute allo “slopping” e al “sovradosaggio ossigeno” (è il fenomeno che provoca i fumi di colore rosso cupo, per gli ossidi di ferro non smaltiti nell’impianto di aspirazione); frequenti emergenze all’acciaieria, ai rottami e agli altoforni, per le emissioni vaste e prolungate convogliate (le “torce”, i camini coi bruciatori in testa) e diffuse (tetti degli altoforni); inadeguata
manutenzione dei sistemi di recupero del gas in torcia ai convertitori; mancata comunicazione alle autorità delle gravi conseguenze degli incidenti; costante smaltimento di emissioni gassose equivalenti a rifiuti attraverso i sistemi di emergenza; scarico di rifiuti liquidi nel deposito fossili, immettendo inquinanti dal suolo non pavimentato alla falda superficiale e al mare; recupero di fanghi contaminati da diossine, furani e idrocarburi policiclici aromatici, o dei liquami derivati dalla pulizia dei nastri trasportatori, nel processo di sinterizzazione (la compattazione delle polveri); l’incredibile smaltimento di polvere di catrame e fanghi attivi, oltre che di loppa (il residuo della produzione di ghisa in altoforno) nei forni delle cokerie; miscelazione illegale di catrame con benzolo e naftalene, col doppio vantaggio di venderla e risparmiare le spese di smaltimento di rifiuti speciali; attuazione
di vere discariche abusive di rifiuti pericolosi e di pneumatici su suoli non impermeabilizzati, nelle acque superficiali e sotterranee; scarichi di acque reflue industriali pericolose, oltre che nelle aree industriali, «in tutte le superfici esterne destinate a residenze e servizi, nelle strade, piste, rampe, piazzali» — cioè
dovunque;
e così via. Le cokerie, che già sono, con l’agglomerazione, il reparto siderurgico più nocivo, vengono abitualmente adibite a immondezzai di incinerimento di solfuri, scaglie di laminazione, fanghi di depurazione delle polveri di desolforazione (“anche da stabilimenti esterni”!).
Il lessico non è fatto per essere padroneggiato dal lettore profano, ma non offusca la sostanza: praticamente tutta l’attività produttiva si svolge secondo l’accusa in modi dolosamente illegittimi. Ciascun addebito menziona le prescrizioni impartite dai custodi, e inattuate: ai parchi mi-
nerari, ai modi di bagnatura dei cumuli, alla chiusura nastri trasportatori — e agli effetti sugli abitanti del rione Tamburi. I Gestori (poi decaduti) Ferrante e Buffo, denunciando un “allarmismo” seminato da magistrati e custodi, imputavano a questi ultimi di aver causato effetti devastanti, riducendo gli sbarchi di materie prime: in realtà impedendo la speculazione sulle tariffe e dimezzando le giacenze dei parchi minerari, con un sensibile miglioramento dentro e fuori lo stabilimento.
«Tutto ciò ha procurato negli anni un indebito vantaggio economico all’Ilva, ai danni della popolazione e dell’ambiente». È questo indebito profitto che la magistratura decide di confiscare, escludendone però quello che serve alla prosecuzione della produzione. L’onere, calcolato sommando gli interventi necessari alle varie aree, ammonta a 8.100.000.000 di euro, cui andrà aggiunto il costo per bonifica di acqua e suolo ai parchi minerari, impossibile da stimare oggi.
L’alleanza fra Ilva e governo Monti credeva di aver segnato punti decisivi: lo scorporo dell’Ilva dall’Ilvafire e dalla cassaforte della famiglia Riva, la sentenza della Consulta sulla legge salva-Ilva. Intanto però la Cassazione, che già aveva dato seccamente ragione
a procura e gip di Taranto sugli arresti per i Riva e i dirigenti, aveva confermato anche l’esclusione di Ferrante dal ruolo di custode giudiziario. Proprio attorno al lavoro dei custodi — tre ingegneri, Barbara Valenzano (39 anni, gestore delle aree a caldo), Manuela Laterza (26) e Claudio Lofrumento (39), e un commercialista, Mario Tagarelli — e della Guardia di Finanza e dei carabinieri del Noe, gira la prosecuzione dell’azione di procura e gip di Taranto. Per giunta, alla vigilia era stata la procura di Milano a sequestrare ai Riva un miliardo e cento milioni per frode fiscale e truffa allo Stato. A quello Stato che aveva deliberato su misura dei Riva una legge così controversa. L’affiancamento della procura (e della guardia di Finanza) di Milano metterà in imbarazzo quelli secondo cui a Taranto i magistrati sono strani e matti.
Intanto, l’Ilva ha consegnato all’operaio Stefano Delli Ponti, che ha contratto per due volte un carcinoma al collo, il primo versamento di ventimila euro, corrispettivo di novemila ore di lavoro devolute dai suoi compagni. La loro solidarietà per equivalente.
PEZZO DI OGGI DI MARIO DILIBERTO SU REP
ROMA
— Dopo il sequestro da 8,1 miliardi il cda dell’Ilva dà mandato di impugnare il provvedimento del gip di Taranto e annuncia le dimissioni. Il governo, con il premier Letta che definisce il caso Ilva «un disastro senza precedenti», ha convocato un vertice per domani con il cda dimissionario e il presidente della Regione, Nichi Vendola. Tra addetti e indotto, sono a rischio 40 mila posti di lavoro. Dall’Italia appello alla Ue per rivedere i vincoli di spesa.
TARANTO
— Il Cda si è dimesso, il più grande gruppo industriale italiano è rimasto senza timoniere. Quarantamila posti di lavoro sono a rischio. Il caso Ilva torna prepotentemente nell’agenda non solo giudiziaria ma anche politica italiana: già domani il ministro per lo Sviluppo economico del governo Letta, Flavio Zanonato, incontrerà l’amministratore delegato dimissionario di Ilva Enrico Bondi e il governatore pugliese Nichi Vendola.
Getta quindi spugna Bruno Ferrante, l’ex prefetto scelto dalla
famiglia Riva per superare la burrasca giudiziaria scatenata dall’inchiesta sull’inquinamento di Taranto. Lascia anche Enrico Bondi, l’uomo del futuro e del risanamento che è rimasto in sella solo una quarantina di giorni. Erano gli uomini di garanzia messi dal gruppo Riva nella speranza di salvare il salvabile e invece sono stati travolti anche loro dall’assalto della Guardia di Finanza alla Riva Fire, la società che fa da cassaforte alla famiglia guidata da Emilio Riva, l’anziano signore dell’acciaio italiano arrestato all’alba di queste bufera infinita.
I sigilli scattati venerdì hanno provocato il nuovo terremoto, che sembra preludere a un’onda sismica. «L’ordinanza dell’autorità giudiziaria colpisce i beni di pertinenza di Riva Fire – scrivono dall’azienda nell’annunciare le dimissioni del cda - e in via residuale gli immobili di Ilva che non siano strettamente indispensabili
all’esercizio dell’attività produttiva nello stabilimento di Taranto. Per tali motivi il provvedimento ha effetti oggettivamente negativi per Ilva, i cui beni sono tutti indispensabili all’attività industriale e per questo tutelati dalla legge 231 del 2012, dichiarata legittima dalla Corte Costituzionale ». Insomma il pensiero dell’azienda ruota intorno all’83 per cento delle quote di Ilva detenute da Riva Fire. Ed è tradotto da Antonio Gozzi di Federacciai che bolla la nuova iniziativa della magistratura come «una volontà di chiudere l’impresa siderurgica». L’allarme che accompagna la
mossa del Cda è stato percepito nitidamente in Puglia dove Ilva nella sola Taranto mette in campo ventiquattromila posti di lavoro, tra diretti e indiretti. Un numero che sale a quarantamila se si prende in considerazione l’intero gruppo. Un rischio che i giudici pensavano di aver esorcizzato escludendo il ciclo produttivo della fabbrica dalla pioggia di sequestri. E invece ieri da Milano l’Ilva ha mostrato i denti, lasciando balenare che se cola a picco Ilva, si porta dietro un tesoro in termini di lavoratori.
Un incubo per la Puglia di Nichi Vendola che si è affrettato a
chiamare in causa il premier Enrico Letta. «Rivolgo un appello al presidente del Consiglio – ha detto Vendola - affinché convochi già lunedì un incontro a Palazzo Chigi con tutti i protagonisti sociali e istituzionali della vertenza Ilva». Alla porta del premier bussano anche i sindacati. Rocco Palombella della Uilm parla di «Governo che deve assumere la gestione dello stabilimento di Taranto ». Maurizio Landini della Fiom si appella alle legge 231, la cosiddetta “salva Ilva”, ricordando che prevede «l’intervento diretto
dello Stato».
ANCORA SU REPUBBLICA DI OGGI
TARANTO
— A sedici giorni dal tempo del giudizio, Taranto aspetta di capire se questa è soltanto l’ennesima puntata del gioco dell’oca (si parte, si gira attorno e alla fine si arriva sempre a uno stesso punto), oppure se questa volta davvero qualcosa sta per cambiare. «Il dodici giugno è la nostra linea di demarcazione:
il giorno degli stipendi. Se i soldi arrivano, rimane tutto così. Se invece saltano, questa città conoscerà la sua vera rivoluzione». Alla portineria D dell’Ilva di Taranto, la paura è un sentimento ormai consumato. «Perché — Marco, ha 33 anni e lavora al tubificio — non puoi avere paura tutti i giorni ormai da anni:
lavoriamo con l’ipotesi che tutto possa chiudere da troppo tempo. I giornali si occupano di noi a ondate, è come una rubrica: ogni tanto spunta il caso Ilva. Poi passa tutto e noi rimaniamo qui. Staremo a vedere se anche questa volta sarà così». Per il momento, quindi tutto fermo: la Polizia tiene basso l’allarme sicurezza,
nessuno parla di scioperi (non fosse altro che l’ultimo è trascorso con l’azienda che forniva i panini a chi picchettava gli ingressi) e i badge continuano ad aprire regolarmente i tornelli.
Qualcosa che cambia però c’è. Non attorno. Ma dentro la fabbrica. Si era intuito il flusso già alle ultime politiche,
con Grillo (tra l’altro l’unico a essere venuto qui in campagna elettorale) che ha stravinto tra gli operai. Le categorie tradizionali ormai sono rovesciate. «E infatti — ammette Michelangelo, uno dei più battaglieri — la fiducia nei sindacati è bassa: siamo d’accordo con il procuratore generale di Lecce, Vignola, quando dice che anche loro sono complici di questo disastro». «Però — parla Antonio, 27 anni, compagno di lavoro di uno degli operai morti in questi mesi — è bassissima anche la fiducia nei confronti dei Riva: noi vogliamo l’industria ma non vogliamo più chi ci ha preso in giro e fatti ammalare per guadagnare in questi anni». Che fare allora? La parola che piace di più è quella di “commissariamento”. Meglio di “nazionalizzazione”. «Facciamo come la Parmalat, magari anche con Bondi che qui ha fatto troppo poco: la fabbrica è sana. Gli otto miliardi sequestrati vengano usati per adeguare gli impianti. E vada avanti il tutto con il nostro lavoro». La cosa che fa più impressione è il disinteresse della città nei confronti della vertenza Ilva. Vivono accanto a un vulcano che sta per eruttare, ma a parte qualche scritta sui muri delle strade, c’è un silenzio surreale. La Regione, per esempio, ha appena lanciato una nuova campagna di comunicazione: «Questa è Taranto» dicono ai turisti, mostrando in foto mare, storia e paesaggi. E sbianchettando l’Ilva.
(g. fosc.)
CARLO BONINI GIULIANO FOSCHINI OGGI SU REPUBBLICA
QUELLO che la famiglia Riva ha consumato per vent’anni ai danni del Paese e dei suoi governi, di una città intera, dei suoi operai, dell’ambiente. I proprietari dell’Ilva pompavano montagne di veleni nei cieli di Taranto e montagne di denaro oltre confine. Otto miliardi e 100 milioni di euro. Blandivano e assicuravano l’opinione pubblica, mentre i loro avvocati lavoravano per rendere impermeabili dall’aggressione della magistratura i trust off-shore che di quell’immensa ricchezza erano la cassaforte.
Questo denaro, in buona parte, è sparito. E ne è prova la frustrazione di chi, nelle ultime 36 ore lo è andato inseguendo con in mano un decreto di sequestro. «Abbiamo cercato in dodici città — racconta una fonte investigativa — Da Potenza a Milano. Abbiamo visitato 16 banche diverse, bloccato e aggredito depositi, titoli, partecipazioni societarie, immobili. Presto apriremo le cassette di sicurezza. Ma stiamo cercando di superare con grande fatica il miliardo». Dove sono finiti dunque gli altri 7 miliardi?
LA SVIZZERA E JERSEY
Conviene partire da quanto annota la Guardia di Finanza nell’indagine della Procura di Milano che, nei giorni scorsi, ha già portato al congelamento di un miliardo
e 200 milioni di beni della famiglia Riva (gli atti di indagine sono arrivati ieri a Taranto). «L’Ilva — si legge — crea otto trust,
Orion, Sirius, Antares, Venus, Lucam, Minerva, Paella e Felgma,
nel paradiso fiscale di Jersey». E su questi trust convoglia la liquidità pompata dall’azienda dopo averla fatta transitare per la Svizzera. «Si tratta — documenta la Finanza — di un mero espediente giuridico, che ha lo scopo di occultare la titolarità del denaro e creare un diaframma che eluda le ragioni dei creditori, compreso l’Erario». Non a caso, nel marzo scorso, mentre Enrico Bondi viene presentato al Paese dai Riva come nuovo amministratore
delegato, epifania di una nuova stagione di “trasparenza e impegno”, la famiglia si preoccupa di mettere al riparo ciò che ha già fatto sparire. «C’è un tentativo — scrive il gip di Milano, Fabrizio D’Arcangelo — di modificare la giurisdizione dei trust per effetto delle iniziative dell’autorità giudiziaria di Taranto».
IL PATTO SEGRETO
La dissimulazione, del resto, appare il mantra dei Riva. E la Guardia di Finanza ne ha conferma quando scopre il “patto di famiglia” che governa i trust e individua nel vecchio Emilio il suo
dominus.
«In ragione dell’accordo, il capitale sociale del gruppo Riva Fire Spa (la cassaforte del gruppo finita sotto sequestro,
ndr)
è detenuto da società che, sia direttamente che indirettamente (Carini Spa per il 25%, Stahlbridge srl per il 35,1% e Utia Sa per il 39,9%), sono controllate da Emilio Riva». Il Patriarca «può decidere in solitudine sulle
questioni di maggior rilievo per le società». Perché «detiene la maggioranza di voto sulla nomina o revoca degli amministratori delle società del gruppo» e sulle «operazioni di particolare rilevanza (acquisto o vendita di partecipazioni o stabilimenti industriali) che, pur rientrando nei poteri degli amministratori delegati o dei consigli di amministrazione delle società del gruppo, venivano considerate di carattere strategico dai membri attivi del consiglio».
Il “patto” — documenta l’inchiesta — prevede che nel Sinedrio di famiglia siedano membri con diritto di voto (Fabio, Claudio, Nicola, Cesare ed Angelo), membri onorari con diritto di intervenire nella discussione (Emilio, Adriano e Laura Bottinelli) e un osservatore (Emilio Massimo) senza diritto di voto». Ma il patto stabilisce soprattutto che il voto di Emilio, «in particolare sulla politica dei dividendi e il piano di investimenti, valga 60 su 100».
OLTRAGGIO ALL’AMBIENTE
Nella saga di acciaio e veleni dell’Ilva, nulla di ciò che appare è vero. Vale per i profitti del Gruppo esportati illegalmente all’estero e dall’estero fatti in parte rientrare con lo scudo fiscale. Vale per l’ambiente. Accade dunque anche con la nomina di Bruno Ferrante. L’ex prefetto è la “garanzia di legalità” offerta a Taranto e alla magistratura. Quella che convince il governo Monti ad approvare la nuova Autorizzazione ambientale e concedere la ripresa della produzione. Ebbene, ecco cosa scrivono oggi di Ferrante i magistrati di Taranto che lo indagano: «Ha operato e non impedito, con continuità e piena consapevolezza, una massiva attività di sversamento nell’aria e nell’ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali ed urbane. In particolare, IPA, benzo (a) pirene, diossine, metalli ed altre polveri nocive
determinando gravissimo pericolo e cagionando eventi di malattie e morte nella popolazione».
ACCORDI DI CARTAPESTA
Si capisce così perché anche il “
cronoprogramma”
di interventi che l’azienda si era impegnata a rispettare appena sei mesi fa diventi una burla. Annota l’Arpa Puglia il 13 febbraio scorso: «Allo stato attuale, la società Ilva non ha attuato, o comunque completato nei tempi prescritti, gli interventi relativi alla fermata delle batterie di cokefazione 3 e 4, al rifacimento dei refrattari a lotti della batteria 10, all’installazione dei sistemi di depolverazione e di chiusura edificio stock house delI’AFO/2, all’adeguamento dei sistemi di condensazione vapori di loppa AFO/4, alla realizzazione del sistema di aspirazione e desolforazione ghisa in siviera presso l’acciaieria ACC/1 e ACC/2, alla realizzazione di una nuova rete idranti per la bagnatura dei cumuli (attualmente in fase di progettazione), nonché all’adeguamento dei sistemi di monitoraggio in continuo per i camini delle aree a caldo ed alla realizzazione di sistemi di videosorveglianza e monitoraggio ambientale».
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PROPRIETARI E MANAGER
Fabio Riva, attualmente a Londra in attesa di estradizione, con il padre Emilio, attualmente agli arresti domiciliari. In basso da sinistra, il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante e Enrico Bondi, amministratore delegato
LUISA GRION SU REPUBBLICA DI OGGI
ROMA
— Un’emergenza nell’emergenza: il caso Ilva e il rischio che - fra azienda e indotto - a Taranto possano scomparire 40 mila posti di lavoro entra di potenza nell’attività di governo sul fronte dell’occupazione. In Puglia «rischia di profilarsi un disastro occupazionale senza precedenti », ha detto il premier Letta ai suoi, appena saputa la notizia delle dimissioni del Consiglio di amministrazione del gruppo siderurgico. Il governo è pronto ad intervenire.
Sarà questo, quindi, l’ennesima battaglia per il lavoro che Palazzo Chigi dovrà affrontare. Una battaglia difficile, che preoccupa per i suoi risvolti sociali e sulla quale è necessario trovare una sponda europea. Ecco quindi che ieri il premier Letta - appena prima di un vertice tenuto a Palazzo Chigi con il vicepresidente Alfano e il ministro dell’Economia Saccomanni - ha scritto una lettera al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy. Formalmente per ringraziarlo dell’attenzione posta
al tema e al progetto italiano in tema di occupazione, ma di fatto per fare pressioni affinché la Ue «faccia di più». Il messaggio inviato a Bruxelles è diretto: «Se le istituzioni non si dimostrano capaci di intervenire per risolvere il problema della disoccupazione - scrive Letta - finiranno per alimentare sentimenti di frustrazione e risentimento, terreno ideale per la crescita di movimenti populisti ed anti-europeisti ». Proseguire nell’inadeguatezza della politica Ue sul lavoro, quindi, porterebbe solo a proteste e tensioni.
Il premier, nella lettera, sottolinea la gravità del caso italiano: «Ci sono 2,2 milioni di giovani che si trovano senza lavoro o senza lavoro e fuori dai percorsi formativi» (abbiamo la quota di
neet
più alta d’Europa
ndr).
Ma avverte anche che non siamo davanti ad una questione nazionale: «I dati delle recenti previsioni economiche della Commissione Ue dimostrano che il problema della disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli allarmanti praticamente in tutti gli Stati membri». Quindi «senza misure straordinarie e mirate non sarà possibile invertire questo trend, aumentando il rischio che la disoccupazione giovanile diventi strutturale».
I conti in ordine sono sicuramente fondamentali per sorreggere la crescita - ammette il premier
nella missiva - ma «molto dipende anche dalla cornice offerta dalle politiche dell’Unione ». Al prossimo vertice europeo fissato per il 27-28 giugno, servirebbero passaggi concreti. In quelli del febbraio e marzo scorso, precisa Letta, «si sono fatti passi avanti importanti, ma non sufficienti». A febbraio è stato costituito un fondo per l’occupazione giovanile di 6 miliardi di euro, da impegnare fra il 2014 e il 2020. A marzo sono state poi «indicate priorità d’azione» sottolineando la portata della «sfida sociale
» in atto. Adesso, chiede Letta, serve di più: «Va stimolata la creazione di un vero mercato del lavoro europeo». Via, quindi, «le barriere che ancora impediscono la libera circolazione dei lavoratori». Sì, invece, ad uno «statuto europeo dell’apprendistato ». Va velocizzata l’erogazione dei finanziamenti varati: Letta chiede di spingere sull’acceleratore «concentrando» quei 6 miliardi già messi sul piatto «nella primissima fase del nuovo ciclo di bilancio». Praticamente bisogna metterli in circolazione
già nel 2014 ed è «necessario usare tutto il potenziale del Fondo sociale europeo» insiste Letta, che intende perorare ulteriormente questa causa nell’incontro che avrà con lo stesso Van Rompuy durante la sua visita in Italia prevista per venerdì prossimo. Certo, i fondi europei non bastano: «Ulteriori risorse dovranno venire dai bilanci nazionali ». Ecco perché, scritta la lettera, ieri Letta ha affrontato il tema nel vertice con Alfano e Saccomanni.
G.FAS. SUL COD DI OGGI
DAL NOSTRO INVIATO
TARANTO — La decisione era già stata presa venerdì, ieri si è trattato di comunicarlo al mondo. Il consiglio di amministrazione dello stabilimento siderurgico più grande d’Europa si è dimesso. L’Ilva, sott’accusa per disastro ambientale, con proprietari e dirigenti arrestati, con migliaia di operai in ansia per l’occupazione, da ieri è un mostro senza testa. Il presidente Bruno Ferrante, l’amministratore delegato Enrico Bondi e il consigliere Giuseppe Deiure hanno abbandonato la partita e hanno convocato l’assemblea dei soci per il giorno 5 giugno, data a partire dalla quale le dimissioni avranno effetto. Ordine del giorno: dimissioni ed elezione del nuovo cda.
Tutto questo, ha fatto sapere l’azienda, «dopo aver esaminato il provvedimento del gip di Taranto che colpisce i beni di pertinenza di Riva Fire e in via residuale gli immobili di Ilva che non siano strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva».
Il giudice di Taranto Patrizia Todisco è a caccia di otto miliardi e cento milioni di euro che i finanzieri cercheranno e sequestreranno nelle prossime settimane. Ieri una prima tranche: sono stati individuati e sequestrati beni per poco meno di un miliardo di euro e il timore è che non ce ne siano abbastanza per arrivare alla cifra indicata dalla magistratura. Ma al di là dell’inchiesta adesso quel che preoccupa tutti, a Taranto, è la questione occupazionale. «Il provvedimento ha effetti oggettivamente negativi per Ilva, i cui beni sono tutti strettamente indispensabili all’attività industriale» dicono i dirigenti dell’acciaieria. E aggiungono che questa spallata rischia, come nessun’altra in precedenza, di farla crollare: «Sono a rischio 24 mila posti di lavoro diretti, 40 mila se si considera l’indotto» dicono fonti dello stabilimento. «Si sta mettendo in pericolo tutto e decine di migliaia di persone potrebbero rimanere senza lavoro».
«Una situazione davvero complicata a questo punto» conferma l’avvocato dell’Ilva Marco De Luca. Complicata sicuramente anche per la famiglia di Emilio Riva, l’ottatasettenne patròn dell’Ilva agli arresti domiciliari da luglio dell’anno scorso. I figli Nicola e Fabio indagati, i dirigenti dell’Azienda finiti in carcere o inquisiti, la procura di Milano che (pochi giorni fa) sequestra alla famiglia un miliardo e duecento milioni di euro e adesso il gip di Taranto che cerca di recuperarne altri otto. L’azienda in pratica è commissariata anche se formalmente Ilva spa può essere attaccata nel suo patrimonio di beni mobili e immobili soltanto «in via residuale». Per esempio se mettendo assieme tutti i beni da sequestrare non si arrivasse alla cifra voluta dalla magistratura che sarebbe equivalente, dicono le carte dell’inchiesta, alla cifra mai investita dallo stabilimento in risanamento ambientale e diventata «profitto illecito nella sua disponibilità». Nelle poche righe del comunicato aziendale diffuso ieri pomeriggio si dice che la «situazione è grave» ma non c’è nessuna indicazione su ch cosa succederà adesso. Nei fatti il controllo dell’Ilva passa nelle mani della magistratura perché la Fire, sequestrata due giorni fa, controlla l’Ilva per l’83%. Quali saranno quindi le ripercussioni dal punto di vista dell’occupazione? Se il giudice attraverso il custode della Fire Mario Tagarelli nominerà un nuovo cda all’Ilva sarà di nuovo bloccata l’area a caldo dell’azienda sott’accusa per disastro ambientale? Per saperlo si dovrà aspettare il 5 giugno ma i tempi di giustizia e amministrazione non sono quelli della fabbrica. Nello stabilimento la preoccupazione non aspetterà giugno. È già sulle facce di tutti.
G. Fas.
ENRICO MARRO SUL CDS DI OGGI
ROMA — Ilva, ci risiamo. Dopo il sequestro dei beni per 8,1 miliardi di euro della Riva Fire che controlla l’Ilva e dopo le dimissioni del consiglio di amministrazione che avranno effetto dal prossimo 5 giugno, si riaprono scenari da incubo per lo stabilimento siderurgico di Taranto che dà lavoro a 11mila dipendenti, senza contare le migliaia e migliaia di occupati nell’indotto. Per questo ieri c’è stato un fitto scambio di telefonate nel governo mentre da più parti si chiede che a scendere in campo sia il premier Enrico Letta. Ci sono 10 giorni per evitare il peggio.
Il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, ha convocato un vertice per domani con il presidente della Puglia, Nichi Vendola, e con l’amministratore delegato dell’Ilva, Enrico Bondi. Zanonato che segue il dossier insieme con il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, ha annunciato che vedrà anche i sindacati, che chiedono interventi decisi, dalla nazionalizzazione all’assunzione diretta della gestione dello stabilimento. Siamo insomma di nuovo, come lo scorso novembre, in una corsa contro il tempo per evitare la chiusura dell’Ilva di Taranto, con una situazione che nel frattempo è diventata più incerta. Il governo, a questo punto, dovrà infatti accertare le reali intenzioni della proprietà, sotto inchiesta per reati ambientali e colpita dal maxisequestro, avendo per di più limitati margini di manovra. «Il Governo è impegnato a far sì che i due diritti fondamentali alla salute e al lavoro possano essere ambedue garantiti — dice Zanonato —. Per questo tutte le istituzioni e la direzione dell’Ilva sono chiamate a una forte assunzione di responsabilità». Secondo il ministro, «fermo restando che sta alla magistratura accertare le eventuali responsabilità individuali di passate gestioni dell’azienda, occorre evitare che oggi si determinino condizioni che rendano impossibile la realizzazione da parte dell’Ilva degli investimenti necessari a dare attuazione all’Aia, l’autorizzazione di impatto ambientale, varata nell’ottobre del 2012 e che ha fissato obiettivi ambientali tra i più avanzati in Europa e posto vincoli stringenti all’azienda». Si tratta in particolare di interventi di bonifica e di innovazione tecnologica per almeno tre miliardi nei prossimi tre anni e ai quali è subordinata la continuità produttiva. In altre parole, se si interrompe la realizzazione degli impegni previsti dall’Aia, lo stabilimento si deve chiudere. Bisogna quindi innanzitutto garantire la continuità aziendale, anche in caso di disimpegno dei Riva. Come? Con un impegno diretto dello Stato? Bisognerebbe ottenere il via libera di Bruxelles.
Enrico Marro
GIUSI FASANO SUL CDS DI OGGI
DAL NOSTRO INVIATO
TARANTO — «Cosa voleva che facessimo? Era una decisione inevitabile, lo capiscono tutti. Non c’era altra scelta che dimettersi». Bruno Ferrante da ieri pomeriggio ha un altro titolo da ex nel suo curriculum: ex presidente dell’Ilva di Taranto.
La grande mediazione non ha funzionato. E lui, uomo delle istituzioni voluto dalla famiglia Riva per ricucire lo strappo con la magistratura, dopo dieci mesi lascia senza essere riuscito a stabilire nessun rapporto di fiducia con la procura di Taranto. Che anzi, dal suo arrivo in poi, ha moltiplicato i guai giudiziari dell’Ilva annotando nella lista degli indagati anche il suo nome. Muro contro muro continuo, nonostante il suo ripetuto «rispetto per la magistratura», malgrado il buon viso a cattivo gioco che gli è toccato sostenere più di una volta.
L’ex prefetto di Milano oggi è l’ex presidente dell’Ilva inquisito per disastro ambientale, avvelenamento di acque e di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. In realtà Ferrante ha tenuto soltanto per quindici giorni nelle mani le redini dell’azienda: dal dieci di luglio dell’anno scorso, data del suo insediamento, al 26 quando il giudice Patrizia Todisco sequestrò l’area a caldo dell’acciaieria affidandola ai custodi giudiziari. «Per quei quindici giorni mi accusano di ogni nefandezza» scuote la testa lui ogni volta che parla con qualcuno di quei capi di imputazione.
Amarezza dopo amarezza si è arrivati a ieri, a quel «passaggio obbligato», come lo chiama lui, delle dimissioni. Il giudice ha di fatto esautorato l’Ilva sequestrando la finanziaria Fire, che detiene l’83% della società siderurgica, affidandola a un suo custode giudiziario. Una sorta di esproprio, secondo la lettura dei vertici Ilva e della proprietà che di sicuro condivide anche l’uomo dello Stato Bruno Ferrante. Esautorati, di fatto, sia lui sia l’amministratore delegato Enrico Bondi. Messi alla porta con la terra bruciata fatta tutt’attorno allo stabilimento e con un’autonomia decisionale ridotta a questo punto al lumicino. Da qui la voce scoraggiata al telefono: «Cos’altro potevamo fare?».
Ferrante molla il colpo e prova a immaginare il prossimo 5 giugno quando l’assemblea dei soci si riunirà per ratificare le dimissioni. Ci saranno lui, Bondi e il consigliere Deiure da una parte del tavolo e dall’altra i soci, appunto. Ma il fatto è che fra i soci ci sarà non più l’uomo della Fire ma il custode voluto dal giudice Ferrante, il commercialista Mario Tagarelli. E sarà lui, con il suo 83% a decidere se accettare o meno le dimissioni, a capire che strada prenderà lo stabilimento da qui in avanti, a nominare il nuovo cda. Altra amarezza da mandare giù per l’ex prefetto di Milano che proprio con Tagarelli, aveva già gareggiato, se così si può dire, nella nomina come custode giudiziario l’anno scorso, in un balletto infinito di incarichi dati e poi revocati. Tagarelli era stato nominato custode con il sequestro dell’area a caldo, il 26 luglio 2012. Ma l’azienda investì della questione il tribunale del riesame che lo revocò per affidare il posto a Ferrante.
Patrizia Todisco — che con Ferrante ha ingaggiato una «guerra» fatta di atti, relazioni sulle attività dell’Ilva, indagini — decise di estromettere l’allora presidente Ilva, ritenendolo incompatibile con l’incarico di custode, dopo soli quattro giorni. E rinominò Tagarelli. Poi un nuovo colpo di scena: durante un’altra fase del procedimento giudiziario fu ripescata la decisione del tribunale del riesame e riammesso un’altra volta Ferrante a scapito del commercialista voluto dal gip. Tutto questo finché non è intervenuta la Cassazione stabilendo che il perdente finale sarebbe stato lui, Bruno Ferrante. Niente incarico da custode giudiziario, quindi nessuna partecipazione alle decisioni amministrative dello stabilimento.
Anche in quell’occasione, come sempre, Ferrante aveva usato parole moderate. Non ha mai alzato i toni nemmeno quando ha trovato «ingiusto» qualcuno dei tanti, ormai tantissimi provvedimenti che lo riguardavano. E anche ieri ha preferito non calcare la mano, non aprire altre polemiche, ripetere che «io resto convinto del fatto che all’Ilva si può conciliare il lavoro e la salute». Inutile chiedergli «E adesso?». La sola parola che si riesce a carpirgli è «vedremo». Nessuna voglia di parlare. Solo l’attesa, per ora. «Vedremo» come andrà nell’incontro del 5 giugno, «vedremo» chi e come si occuperà dell’Ilva nei prossimi anni. «Vedremo» che futuro avrà Taranto.
Giusi Fasano
BUCCINI SUL CDS DI STAMATTINA
Gli americani, che sanno trasformare i guai in genere cinematografico, lo chiamano worst case scenario: il peggiore degli incubi possibili. Noi, nel nostro piccolo, lo stiamo sperimentando a Taranto. L’Ilva, asse portante della siderurgia nazionale e dunque dell’assetto industriale nostrano, da ieri è senza vertici. Dimissioni collettive, via anche un manager del livello di Enrico Bondi appena insediato per raddrizzare la barca. A rischio almeno 40 mila posti di lavoro, da domani la città dei Due Mari ricomincia a vivere tensioni che una recente sentenza della Consulta e la nascita di un pool di banche finanziatrici parevano avere allentato. E’ l’ultimo effetto del sequestro deciso dalla giudice Todisco contro la Riva Fire, la cassaforte di Emilio Riva e figli: otto miliardi e cento milioni di euro bloccati, cifra sconcertante (beni indispensabili per andare avanti, dicono in azienda preparando il ricorso). Soldi che sarebbero stati sottratti alle bonifiche ambientali e alla sicurezza degli impianti dal 1995 a oggi (cioè anche mentre i vertici Ilva dialogavano col governo Monti ottenendone deroghe e benefici). Certe morti in fabbrica, scrive la gip in un passaggio agghiacciante, si spiegano anche così.
C’è da augurarsi che la Todisco abbia preso un abbaglio immane. In caso contrario siamo in presenza di un’operazione coloniale (in senso tecnico: sfruttamento di un territorio da parte di un’entità economica esterna, nativi danneggiati, risorse portate altrove). Un’operazione non consumata, tuttavia, nel buio dell’Africa del diciannovesimo secolo, ma oggi, sotto i riflettori del villaggio globale. Tutti potevano vedere. Tutti si sono girati dall’altra parte. Quando l’acciaieria nacque per mano pubblica, mezzo secolo fa, un vecchio sindaco dc, Angelo Monfredi, disse che qui erano «talmente poveri» che si sarebbero fatti mettere gli impianti «anche in piazza della Vittoria», cuore di Taranto. I suoi successori, via via meno poveri, non si sono allontanati molto dalla «linea Monfredi», nemmeno trattando con i privati che da vent’anni sono scesi quaggiù.
Perché, senza voler nulla togliere alle responsabilità eventuali dei Riva (sempre più inadeguati a gestire la catastrofe) è difficile non scorgere attorno ad esse un quadro di disattenzioni e omissioni tra i politici che avrebbero dovuto legiferare, i sindacalisti che avrebbero dovuto protestare, i giornalisti che avrebbero dovuto documentare problemi noti a Taranto anche ai bambini (non per modo di dire: ci sono prati alla diossina dove è stato vietato giocare per ordinanza sindacale). Senza allontanarsi molto nel tempo, quando nel 2005 l’Ilva subì la prima condanna per inquinamento, Comune e Provincia si ritirarono dall’elenco delle parti civili e la Regione di Fitto non ci si mise neppure («certi nodi non si sciolgono per via giudiziaria»: giusto, purché si trovi un’altra via). Dai finanziamenti (regolarmente dichiarati) dei Riva a Bersani nel 2006, agli apprezzamenti di Vendola per il patron Emilio, ancora nel 2011, sulla rivista dell’azienda («credo che dalla durezza dei primi incontri sia nata la stima reciproca che c’è oggi»); dalle rassicurazioni dell’attuale sindaco Stefàno al boss delle pubbliche relazioni Archinà, sul rinvio sine die del referendum avversato dall’azienda, fino al ricorso di Cgil e Cisl proprio contro quel referendum; senza dimenticare il silenzio tenace di generazioni di senatori e deputati pugliesi: l’idea di dover difendere comunque i posti di lavoro ha convinto chi era in buona fede e coperto chi magari lo era meno. Faldoni di intercettazioni mostrano connivenze di giornalisti locali. A ciascuno il suo. Ma il flop del tanto sospirato referendum, infine celebrato ad aprile, ha svelato lo scarso interesse alla questione persino della mitica società civile (massimo astensionismo a Tamburi, il quartiere più inquinato). L’Ilva è dramma nazionale, la sua chiusura avrebbe effetti esiziali sulla nostra economia, sicché ora si guarda al governo Letta, all’Europa, a qualche santo patrono. Ma «ce me ne futt’a mme?, che me ne frega?», il motto identitario dei tarantini, troppo a lungo ha unificato la Penisola sulla questione. Davvero la colpa è tutta di patron Emilio?
CRONOLOGIA DELL’AFFARE ILVA
• 26 LUGLIO 2012 Il 26 luglio 2012 il Gip di Taranto Patrizia Todisco, in base a un rapporto dei carabinieri del Noe, dispone il sequestro senza facoltà d’uso dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto. Il gip dispone anche l’arresto per i proprietari Emilio e Fabio Riva, e altri manager della società siderurgica. Il 7 agosto il Tribunale del Riesame di Taranto conferma
i provvedimenti
• 3 DICEMBRE 2012 Per interrompere lo stallo e sbloccare i sequestri disposti dalla magistratura, il governo Monti il 3 dicembre 2012 emana un decreto legge (convertito dal Parlamento alla vigilia di Natale) recante «disposizioni urgenti a tutela della salute e dell’ambiente». La Procura fa ricorso alla Corte Costituzionale contro la legge, ma la Consulta lo scorso aprile conferma la legittimità costituzionale delle norme
• 14 APRILE 2013 ARANTO - I tarantini disertano il referendum sul futuro dell’Ilva: in pochi sono andati a votare e la sfida del quorum del 50% più uno lanciata dai promotoridell’iniziativa è stata persa. I seggi sono rimasti aperti dalle 8 alle 22, ma alla fine la percentuale di chi si è recato a votare è stata solo del 19,52%. Hanno votato 33.774 persone sui 173.061 aventi diritto.
I quesiti. I tarantini sono stati chiamati a votare per il referendum promosso dal Comitato ’Taranto Futur’ che per questo ha raccolto 12.000 firme. Una croce su un sì o su un no per decidere del futuro della fabbrica, se il colosso dell’acciaio deve o no chiudere in tutto o in parte. Ai tarantini sono state poste due domande: sì o no alla chiusura totale dello stabilimento; sì o no alla chiusura parziale dell’Ilva cioè della sola area a caldo, quella sottoposta a sequestro dalla magistratura dal luglio 2012 perchè altamente inquinante. È questo il dilemma che strazia la città e i tarantini da sempre, acuito in modo esponenziale negli ultimi mesi, da quando cioè è intervenuta la magistratura dando il via ai primi sequestri, ipotizzando nelle accuse un disastro ambientale senza precedenti.
• 22 MAGGIO 2013 Il 22 maggio 2013 la Procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati i proprietari dell’Ilva, Emilio e Fabio Riva, con l’accusa di aver truffato lo Stato facendo sparire in paradisi fiscali un miliardo e duecento milioni. In più due professionisti indagati per riciclaggio. Due giorni dopo il sequestro di 8,1 miliardi di euro, cifra equivalente, secondo i magistrati, alle somme che l’Ilva avrebbe risparmiato non adeguando gli impianti alle normative ambientali
• 25/5/2013 Ieri si sono dimessi i nuovi vertici dell’Ilva. L’ex prefetto Bruno Ferrante nominato presidente dieci mesi fa; ed Enrico Bondi, amministratore delegato dallo scorso mese. Dimissioni anche per il consigliere Giuseppe De Iure.
Sarà l’assemblea dei soci, convocata il 5 giugno, a ratificare le dimissioni, nominare un nuovo Cda e indicare le linee guida per il futuro della più importante azienda siderurgica italiana