Riccardo Staglianò, il Venerdì 24/5/2013, 24 maggio 2013
I LETTAS
Bisognerebbe chiederlo al matematico Giorgio Letta, esperto di processi stocastici, quante probabilità c’erano che da una singola famiglia venisse fuori una squadra così. L’eterna eminenza grigia della politica italiana; due accademici di prima grandezza; una vicepresidente della Croce rossa; un influente assicuratore e un gran manager con case in tutto il mondo e relativa crisi spirituale di mezz’età. Per non dire, una generazione sopra, di uno dei prefetti più ardentemente mussoliniani del Ventennio. E, una generazione sotto, dell’amministratore delegato della Medusa Film. Di un cugino vice-segretario generale della Camera. E, in ultimo, del neo-presidente del Consiglio. Tutte le famiglie felici si somigliano. Quelle italiane di successo ancora di più. Prima fasciste. Poi democristiane. Quindi di centrosinistra. Moderatamente. Anzi, con «sobria soddisfazione», come ha detto il premier Enrico commentando il suo stesso esecutivo.
Passioni tristi, ma determinazione di ferro. I Lettas sono i nostri Kennedy, però senza gli scandali. Una dinastia rivestita di teflon e lastricata di superlativi. Dagli appunti di quasi un’ora di conversazione con uno che li conosceva bene ricavo solo questi aggettivi: straordinari, meravigliosi, spartani, brillantissimi, estremamente religiosi e disponibili, esemplari. Mai un calcio a un pallone che accidentalmente spacca un vetro. Ora, la virtù è tutto meno che un difetto. E le virtù lettiane – su tutte diplomazia, riservatezza, buona educazione – si trasmettono col latte materno. Da quando il patriarca Luigi si stabilì ad Aielli, borgo di 350 anime nella Marsica. Per esercitare la professione di gabelliere, come il padre del conterraneo Giulio Mazarino, ministro di Luigi XIV, al quale Gianni è frequentemente paragonato. Il tremendo terremoto del 1915 si porta via sua moglie e tre degli otto figli. Tra i sopravvissuti ci sono Guido e Vincenzo. Il primo è la vera leggenda locale. Prefetto fascista, alla segreteria del Duce dovrà trattare con il sicario di Matteotti ed è tra i pochi insigniti della croce al merito dell’Aquila tedesca. Con questo curriculum, nell’estate del centocinquantennale dell’Unità, al sindaco di Aielli viene in mente di intitolargli quella che sin lì era Piazza del Risorgimento. Comitati cittadini insorgono. Storici locali riesumano le lettere in cui il Nostro ricorda l’entusiastica adesione alla Repubblica sociale. L’Anpi va sulle barricate. E Gianni, vero destinatario della captatio del sindaco, rimanda il ritiro della cittadinanza onoraria del borgo natìo.
Dove il padre Vincenzo è stato podestà. Giovane avvocato, fa il praticante nello studio avezzanese De Vincentiis e sposa Maria, la figlia del titolare. Nascono otto figli – per i cinesi, e per i Letta, è il numero del successo –, il nucleo benedetto da una sfacciata fortuna sociale. L’imprinting culturale viene dalla mamma, molto devota, filantropa, assediata da concittadini in difficoltà che le chiedevano parole e opere buone. Lei, raccontano tutti in coro, non si tira mai indietro. In coro, ma anonimamente perché, siano carezze o scudisciate, ad Avezzano come fosse Corleone, nessuno vuole parlare dei Letta mettendoci la faccia. A partire da almeno tre membri eminenti della generazione di mezzo, che hanno garbatamente declinato qualsiasi incontro per non «finire in pasto alla pubblica opinione» (preoccupazione sinora largamente fuori bersaglio, dal momento che nell’ultimo anno è uscito giusto un articolo locale, molto benevolo, a ricostruirne la genealogia).
I vecchi di Aielli ricordano i rosari, recitati ogni sera d’estate nella casa avita, che rimbombavano nelle strade vicine. D’altronde l’ex prefetto nel ’37 aveva fatto ricostruire una chiesa, accanto alla casa del fascio, suggestivamente intitolata a Sant’Adolfo e a San Guido. Tutti hanno respirato l’incenso, Maria Teresa sembra averne assorbito di più. Dopo essere stata una severa prof di francese alle medie si è impegnata nella Croce rossa, prima locale e poi nazionale. Passando da un coinvolgimento nella ricostruzione per il terremoto (secondo i maligni assai favorito da Gianni). È una diacona che impartisce le comunioni. Ha tre figli, fra cui uno prete a Roma. Ai tempi del suo liceo, racconta una compagna, non poteva andare neppure al cinema. E anche da sposata, se doveva andare a salutare mamma e disgraziatamente indossava i pantaloni, passava prima da casa per mettersi la gonna. Molto pia, molto avversata da un drappello di signore bene che l’hanno incrociata nella beneficienza. E da un carabiniere che l’ha citata in giudizio per presunti abusi di gestione. Il suo fratello di riferimento era Gianni, l’unico di cui è già stato scritto molto. Inizia giornalista, passa agli Angiolillo, editori del Tempo, la notizia che il Messaggero vorrebbe varare un inserto locale, e questi lo bruciano in velocità. Grande gratitudine, infinita carriera. Prima come direttore, poi come consigliere di Berlusconi. Senza mai, sottolinea chi l’ha conosciuto, essersi candidato a niente.
Gianni è anche lo zio di riferimento del neo-premier. Quando Enrico studia a Pisa, ben prima di diventare presidente dei Giovani democristiani europei – una dicitura che, agli studenti pisani dell’epoca, suonava come un ossimoro – passa lunghe estati da lui a Roma e altrove in villeggiatura, con il cugino Giampaolo che ora è amministratore delegato di Medusa Film. Vincenzo, il fratello di Enrico che fa il grafico pubblicitario, se la intende molto di più con Corrado, lo zio che dipinge come lui e che la vulgata marsicana definisce «ribelle».
Pare che non avesse tanta voglia di studiare. È l’unico cui, invece dei marmi del ginnasio Torlonia, toccherà l’istituto per geometri. Una coetanea racconta di una vacanza al mare dalle parti di Pescara in cui si presenta «senza soldi» e con «voglia di divertirsi». In effetti dirazza. Ma non nell’intelligenza. Al punto che, qui le notizie si confondono, diventa manager, comincia a viaggiare e fa un sacco di soldi. Colleziona case negli Stati Uniti, in Malesia, e preziosi oggetti d’arte. Verso i 45 anni però l’accumulo lo nausea. Si disfa di un po’ delle sue fortune, vorrebbe diventare francescano ma poi inizia un cammino di fede tra i gesuiti, che non terminerà. Ha addirittura la barba, che tra gli imberbi Letta equivale a una dichiarazione di guerra. Forse si sposa con una straniera, divorzia, intuisce il potenziale economico della Corea del Sud e ne scrive in un libro pubblicato dal ministero degli Esteri. Una parabola esistenziale così diversa e spiazzante che più d’uno, tra i coetanei avezzanesi, lo giudica «quello che ha avuto più successo».
Giorgio e Cesare sono d’un’altra pasta. Imbarazzantemente bravi a scuola. Quindi Normalisti. Il primo, papà di Enrico, è tra i pionieri del calcolo delle probabilità in Italia. Un suo allievo lo ricorda impeccabile, «uno i cui gessetti non facevano polvere. Perfetto nelle parole e negli abiti». Ironizzava solo su quelli che si illudevano, malintendendo la statistica, che i numeri ritardatari del Lotto avessero più chance di uscire. Insegnava bene. Tanto rispettoso dei ragazzi, quanto distaccato con gli amici dei figli. Che tuttavia lo amavano e stimavano molto. Al secondo, Cesare, le versioni dal latino e dal greco venivano così naturali che le scriveva in stampatello, solo per il gusto di rallentare e non terminare troppo prima dei compagni. È inevitabilmente finito a insegnare Storia romana a Pisa, dove dirige la rivista di Studi classici e orientali. Ha fatto importanti scavi ad Amplero, nella valli marsicane, e alla nomina del nipote è stato forse l’unico a sbilanciarsi: «Non lo invidio. Brutta gatta da pelare. Spero che duri almeno un anno» ha detto ai microfoni, ben poco istituzionali, di Un giorno da pecora. Per poi aggiungere che Gianni ed Enrico hanno «un’affinità politica del 75 per cento».
Fuori dalla scena restano il primogenito e due femmine. Luigi, l’unico ad aver seguito la carriera paterna, è diventato un dirigente di Assitalia a Milano. Le donne, con la vistosa eccezione di Maria Teresa, hanno preferito «vivere in sordina», nella definizione dei bene informati. Francesca Romana, insegnante ad Avezzano, è sposata con un ex preside tanto stimato quanto riservato. Giornalisti astenersi. Hanno tre figli obbedientissimi la cui passione giovanile, estorta a un coetaneo, era il ping pong. Adriana ha insegnato alle elementari, e vive da tempo a Cassino con il marito, dirigente di una cartiera. Non lo so, ma a occhio nemmeno una multa per divieto di sosta. Pare che quando morì mamma Maria, uscì questo necrologio: «Gli otto figli la ricordano con amore e profonda gratitudine, ma anche con quella discrezione che lei ha sempre praticato e insegnato. Avrebbe preferito il silenzio, con l’annuncio dopo l’ultimo commiato». Chissà chi l’avrà scritto. Uno o tutti, è la cifra della casa. Prima della «sobria soddisfazione», la «sobria tristezza». Che comunque, dopo tanti anni trash, è sicuramente un passo avanti.
Riccardo Staglianò