Giovanno Vigo, Sette 24/5/2013, 24 maggio 2013
MEGLIO PRESTARE DANARO A MONACI PIUTTOSTO CHE A RE
Dopo lo scoppio della crisi che ha messo a nudo la fragilità del sistema finanziario internazionale, c’è stato un solo giorno in cui non si sia parlato di debito pubblico, di default o di spread? È difficile trovarne qualcuno, ed è ancora più difficile trovare uno Stato che non abbia sulle proprie spalle un pesante fardello di debiti accumulati nel corso del tempo. Anche se si tratta di un problema balzato all’onore delle cronache soltanto negli ultimi decenni, il debito delle istituzioni pubbliche, siano esse città, Stati o imperi, ha una lunga storia, spesso sfuggente, che merita di essere raccontata.
Ma, in primo luogo, che cosa è il “debito pubblico”? Alcuni anni fa Herbert Lüthy ha sottolineato con particolare vigore che non bisogna confondere il debito pubblico con «la semplice possibilità per lo Stato di trovare dei prestatori di denaro o dei fornitori disposti a far credito». Questi ci sono sempre stati. Per esempio, nel 432 a.C., in vista della guerra del Peloponneso, gli alleati di Sparta ottennero dai santuari di Delfi e di Olimpia l’oro necessario per armare una flotta in grado di fronteggiare con successo gli ateniesi. Un secolo più tardi dieci città delle Cicladi ottennero grossi prestiti dal santuario di Apollo. Polibio e Plinio il Vecchio raccontano che intorno al 240 a.C. i romani più ricchi fornirono alla propria città navi destinate a rafforzare la flotta impegnata nel duro scontro con Cartagine. Un atto patriottico, sottolineano i due storici, se non che nel momento stesso in cui consegnarono le navi chiesero di essere rimborsati delle spese sostenute quando la campagna si fosse conclusa, cosa di cui non dubitavano, con la vittoria. Nessuno di questi prestiti aveva il carattere di debito pubblico, «una delle rare istituzioni economiche di qualche importanza che», come ha scritto Earl J. Hamilton, «non affonda le proprie radici nel mondo antico». La ragione, aggiungeva lo storico americano, era semplice: i greci e i romani non ne avevano bisogno. «L’accumulazione di tesori in tempo di pace, i sequestri arbitrari di risorse in caso di guerra, le imposte straordinarie nei momenti di emergenza» rendevano superfluo il ricorso a prestiti consolidati.
I legami tra debitori e creditori. A complicare la nascita del debito pubblico come oggi lo intendiamo, contribuì anche la confusione esistente fra le finanze del sovrano e quelle dello Stato, una confusione che impensieriva i prestatori perché le dinastie potevano tramontare (e con esse i loro debiti) o perché, messi alle strette, i monarchi potevano sospendere il pagamento degli interessi, dilazionare i rimborsi, consolidare i debiti fluttuanti o, in caso estremo ma non raro, dichiarare bancarotta.
I debiti incominciarono ad assumere la configurazione odierna quando si spezzarono i legami personali fra debitore e creditore, e vennero riferiti a istituzioni che garantivano la continuità nel tempo. Il problema non aveva carattere giuridico ma nasceva dalla consapevolezza sempre più diffusa che il debito del re era il debito di tutti. Agli Stati generali di Orléans del 1561 il cancelliere Michel de l’Hôpital dichiarò che il debito raggiungeva la cifra astronomica di 43,5 milioni di lire tornesi. In quell’occasione non usò il termine “debito pubblico”, commenta Philippe Hamon, ma i deputati erano perfettamente «consapevoli che il debito del re era “pubblico”… perché il sovrano agiva (anche quando commetteva degli errori) al servizio della res publica e del bene comune». Nell’Essay upon Public Credit pubblicato nel 1710 Daniel Defoe mise ancora meglio in luce questa caratteristica: «Il debito è nazionale e non personale, e perciò non è garantito da un bene o da una persona, da un uomo o da un gruppo di uomini, ma dal governo, cioè dalla regina e dal parlamento».
Pure i vescovi passano. Fin quando questa ambiguità non venne chiarita il rischio che correvano i prestatori era molto elevato e gli interessi sui prestiti raggiungevano tassi vertiginosi. I prestatori più prudenti preferivano evitare questa alea e mettere il loro denaro nelle mani di istituzioni più salde come i monasteri. Un curioso episodio, accaduto in Inghilterra all’inizio del XIII secolo, illustra con tutta evidenza questa situazione. Thomas di Marlborough riuscì a convincere i suoi confratelli del monastero di Eversham a contrarre un grosso prestito per sostenere le spese legali in una causa contro il vescovo di Worchester. L’argomento addotto, che rassicurò i monaci e ancor più i prestatori, era che «il convento è immortale» mentre i vescovi passano, sottintendendo che essi non potevano ottenere altrettanto facilmente i prestiti necessari per tener testa ai monaci.
Prestare ai re e ai principi non era soltanto molto rischioso; a volte poteva tradursi in vere e proprie catastrofi. Lo sapevano bene i banchieri fiorentini travolti dalla bancarotta di Edoardo III e coloro che avevano investito nei titoli dell’impero zarista i cui debiti vennero ripudiati da Lenin dopo la rivoluzione di ottobre. Ma c’era anche il rovescio della medaglia. I guadagni erano di solito ingenti e i creditori potevano attenuare i rischi ottenendo solide garanzie come la riscossione diretta delle imposte destinate al servizio del debito, e contando sul fatto che i governi avevano tutto da guadagnare se tenevano fede alle promesse: una bancarotta avrebbe messo in allarme i prestatori e reso più onerosi i successivi indebitamenti. Non per nulla anche i governi decisi a rompere con il passato cercarono di mantenere, almeno in parte, gli impegni assunti dai loro predecessori. Dopo il 1789 il governo francese si guardò bene dal ripudiare i debiti contratti durante l’ancien régime: semmai preferì ricorrere a un espediente più insidioso ripagando i creditori con gli assignats, una moneta di carta che perse rapidamente il proprio valore e venne abolita nel 1797.
La svalutazione della moneta come strumento per ridurre il peso del debito pubblico è stata più volte impiegata. Oggi viene riproposta da qualche economista come scorciatoia inevitabile per risolvere i problemi dei Paesi più indebitati senza ricorrere a un default conclamato. Ma se ciò dovesse accadere per i prestatori le conseguenze non sarebbero molto diverse.
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