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 2013  maggio 24 Venerdì calendario

EDHI, TRA GANDHI E MADRE TERESA. UN POVERO CHE AIUTA I POVERI. CHE NON VUOLE SOLDI DAI RICCHI E NON CAPISCE LE GUERRE SANTE. DA ANNI MERITA (PIÙ DI ALTRI) IL NOBEL PER LA PACE


È appena tornato dalla dialisi. Stanco. Il sangue ripulito, la mente intossicata di bocche da sfamare, occhi da asciugare, piaghe da curare. «Avete chiamato l’ospedale civile per il bambino arrivato ieri?». Edhi è su un divano sgangherato. Poggiato al bracciolo, composto come un paziente in attesa, curioso come un vecchio che non ne ha mai abbastanza. «Sì, maulana, abbiamo chiamato. Ma perché non ti riposi un po’?...». Nell’angolo ronza una fotocopiatrice ingiallita dall’uso, otto ritratti incorniciati sul muro bianco piastrellato e sudicio: «Sono i nostri impiegati uccisi a Karachi in questi anni». Un gatto gli dorme sui sandali, un indolente ventilatore gli muove lo shalwat kemilzesoli blu con le macchie rapprese, probabilmente l’unico pigiamone pakistano che possiede. «Ne ho un altro, è a rammendare. Mi bastano due vestiti per non sentirmi mai povero». Il macellaio di fianco arpiona sulla strada quarti di montone farciti di mosche, l’acqua arrossata di sangue che scorre sul pavimento fino ai sandali di Edhi, a svegliare il gatto. «Dopo i giornalisti portatemi a Kaghzi, c’è da controllare il cibo dell’orfanotrofio». «Va bene, maulana, ma non è meglio se ci andiamo solo noi?...». Nel vicolo di Bolden Market scorre una fiumana di bambini impolverati, gabbie coi piccioni, venditori di telefonini, mendicanti macilenti, motoape che sgasano, cavi sospesi, fumi da caos primigenio. A fatica si fa largo la sirena di un’ambulanza, bianca con la scritta rossa “Edhi-115”, ce ne sono in giro altre duemila: «La prima l’ho comprata cinquant’anni fa chiedendo l’elemosina in strada. 55 dollari. Non c’è vergogna nel ricevere la carità. S’impara che i ricchi, quando ti danno qualcosa, non ti guardano negli occhi».
Il monumento più venerato di Karachi non è la tomba di Jinnah, il fondatore del Pakistan. È una stanzetta lercia nella miseria della megalopoli disperata. Un po’ di neon acceso nel pozzo nero di quindici milioni di poveri. Un’insegna di legno verniciato, “Property of Abdul Sattar Edhi Foundation”, e dentro Edhi: ci arrivò nel 1947, dal Gujarat indiano, giovane profugo della partizione post-coloniale. Voleva abbracciare gli ultimi di questa Karachi baraccata che cresceva, si gonfiava, diventava una cloaca di sindhi, baluchi, punjabi, pashtun, kashmiri, afgani, arabi, iraniani, africani, e alla fine decise di non levarsi mai più. «Oggi fatico a ricordare tante storie di chi ho aiutato. Ho sempre in mente quelli che non sono riuscito a salvare. E quel che l’uomo è capace di fare: nella parte nuova di Karachi, una volta trovai i resti d’un irriconoscibile. L’avevano spappolato con un’ascia. Era carne macinata. Non potevo fare nulla. Solo adagiarlo in un lenzuolo e avvolgerlo».
La sua unità di misura è la miseria interna lorda. Il suo capolavoro, un welfare unico al mondo, gestito dai poveri per i poveri, che si regge solo su di lui. Ha costruito dal nulla e, sessant’anni dopo, il suo impero del bene lo governa con una regola immutata: nulla per sé, tutto per gli altri. Un divano, due scrivanie. Una montagna d’offerte – dovere d’ogni buon musulmano – che ogni giorno gli arrivano sulla fiducia. E una lista infinita di cose da fare per tre milioni di bambini abbandonati, 40mila neonati del cassonetto, un milione di sciancati tolti dalle discariche umane, 80mila malati di mente e tossicodipendenti, 350mila volontari, otto ospedali e decine d’orfanotrofi, due banche del sangue, tre gigantesche mense pubbliche, 250 centri per la protezione civile e la ricerca degli scomparsi, cinque scuole per infermieri, 400 programmi di vaccinazione, venti centri d’aiuto femminile, 300 pompe funebri, 306 ambulatori di pronto soccorso, il più grande servizio d’ambulanze del mondo (con due aerei e un elicottero), una rete per il soccorso stradale e in mare, due cliniche oncologiche, quattro centri raccolta di cibo e vestiti, perfino servizi veterinari per animali maltrattati, botteghe della carità per gli emigrati a New York, Londra, Tokyo, negli Emirati Arabi e in Canada, campagne d’aiuto in Afghanistan, Somalia, Bosnia, Libano…

Il ricordo vivo della madre. Tutto gratis et amore. Non Dei, ma di Edhi. Perché gli dèi stanno alla larga dall’inferno di Karachi, dove si sopravvive con dieci euro al mese, i bambini sono buoni a cinque anni per il semaforo e le bambine a dieci per qualche vecchio, ogni mattina la nettezza urbana raccatta qualche cadavere, dove i poveri saranno anche beati, come dice il Vangelo, ma qui non si nota tanto. Primo comandamento: «Non esistono mendicanti felici». Secondo: «Aiùtati, ché Dio t’aiuta ma solo un po’». Edhi li ha imparati da sua madre, donna tormentata, divorziata da un precedente matrimonio e obbligata a lasciare al loro padre, e a un destino incerto, due figli di primo letto. La mamma torna sempre, nei discorsi: «Da piccolo m’insegnava che i sofferenti non devono mai essere abbandonati». Lei sola e paralitica, lui unico sostegno, a undici anni Edhi se la prese in carico, imparando a vendere penne a sfera e poi a portare a casa, bambino di strada, gli altri bambini che una madre non l’avevano. «Quando mi dava due rupie», ha raccontato una volta alla scrittrice Tehmina Durrani, «voleva che ne donassi una a chi aveva più bisogno. Era intransigente: se non lo fai, diceva, mi deludi molto». Il suo programma di vita è rimasto su un cartoncino, “love humanity”, che Edhi porta sempre con sé: «Quando arrivai dall’India, non sapevo fare altro. Dare senza pretendere è un insegnamento dell’Islam. Non capisco le guerre sante, combattere le altre fedi. Che perdita di tempo! L’Islam vuole un’umanità che vive in pace. La sua essenza è darsi da fare per gli altri. Non ci arrivi con le parole o le spiegazioni, solo con l’esempio. Mettere in pratica Dio, mi fa sentire degno d’essere nato».
(Un minareto avverte che è l’ora di pregare e d’altre urgenze: arrivano venti bocche sdentate, Edhi s’alza con fatica a indicare un porticato, il figlio Feisal fa stendere una cerata rossa, riso e pollo. «A quest’ora, ce ne sono altre migliaia a Rawalpindi, a Lahore, a Peshawar. Se Dio mi desse soltanto un’altra vita, comincerei di nuovo da loro…». Andiamo all’orfanotrofio, l’ambulanza che ci porta si deve fermare a ogni budello, chi ha un bisogno e chi bisogno d’un abbraccio. I bambini abbandonati stanno facendo ginnastica, è un urlo che rimbomba quando compare nonno Edhi. L’avvolgono in un’anaconda di risate, lo baciano, lui si fa prendere da una mano, «questo l’abbiamo trovato che dormiva nudo sotto un camion», e si preoccupa della frutta per la merenda, «è poca, perché gliene date così poca?», si scusa quasi e fa un lieve inchino, servo umile di piccoli re, prima di salutarli e d’uscire).
Povero fra i poveri, coi poverissimi Edhi ci dorme. E li cresce, li lava, li veste, li ascolta, spesso li seppellisce. Ha una moglie infermiera, Bilquis, “la madre del Pakistan”, sposata dopo che altre sette avevano detto no. La vera santa è lei che ne sopporta le esplosioni d’ira, ride il vecchio segretario, e che da ragazza cercava d’ingelosire il fidanzato, inutilmente, raccontandogli di qualche bellimbusto di Dubai che le sussurrava «vieni via con me, perché stai con quell’ubriacone che raccatta i poveracci?». Con Bilquis, Edhi abita in prestito un bilocale di Kharadar, uno dei bassi più pericolosi di Karachi. Cinque figli, tutti a dare una mano. Di suo, non ha uno stipendio, un’auto, una proprietà, un computer, un telefonino, un orologio. Niente. Parla solo l’urdu. È il Terzo mondo che assiste il Terzo mondo e non vuole soldi da stranieri, dai governi, soprattutto dai ricchi: «Li accetto solo se vengono dal Pakistan e dalla gente». Ogni anno lo candidano al Nobel per la pace, i giornali nazionalisti scalpitano perché a 85 anni comincia a essere un po’ tardi (e che indignazione, quando Stoccolma premiò il bengalese Muhammad Yunus, chiacchierato banchiere delle baraccopoli): «Ho già il denaro che mi serve», Edhi non se ne cura granché, «ma se col Nobel arrivano soldi per questi che mangiano qua fuori, sono felice…». Da una vita il dio delle piccole case di Karachi è paragonato, ovvio, a Madre Teresa di Calcutta. Non ne sorride: «Venne tre volte in Pakistan, ma non l’ho mai incontrata. Il governo l’accoglieva con tutti gli onori, però evitava di portarla da me: preferivano nascondere questo posto, naturalmente. Lei mi piaceva, era una persona coraggiosa. Ma non mi piaceva quel che rappresentava, la sua Chiesa. Io non condivido che s’aiuti l’uomo dentro un gruppo religioso: l’uomo l’aiuti e intanto lo lasci libero. Lo dico anche di tanti musulmani che non capiscono chi dà una mano agl’infedeli. L’umanità non è un prodotto di supermarket con l’etichetta appiccicata: indù, sikh, musulmano, cristiano».
(Una volta, Edhi scrisse pure una letteraccia a Gheddafi, perché il dittatore libico aveva offerto aiuto ai Paesi musulmani del mondo: bene, bravo, lo sgridò, ma guarda che l’aiuto si deve dare a tutti, musulmani e non. Un’altra volta fu attaccato da alcuni barbuti, perché aveva assistito una ragazza rimasta incinta al di fuori del matrimonio, e allora dovette urlare: «Quale Dio può condannare un neonato innocente, che è già senza padre, a non avere neanche la madre?»).
Lo chiamano maulana, maestro, qualcuno anche dottore perché ha una laurea ad honorem. «Non ho studiato. Ma nella vita conta restituire a Dio quello che ti ha dato. Io ho avuto una mamma paralizzata da assistere, la più umiliante delle condizioni: era quel che Dio voleva da me». A volte Edhi spolpa parole come un profeta, fa un po’ la voce del santone, anche se dice che ormai non prega più: «Non vado mai alla moschea. Avrei tempo per farlo, come no, mi sveglio la mattina alle 4 e mi corico la sera alle 8. Ma se prego, tolgo tempo ai poveri, a chi mi cerca per donare qualcosa. L’Islam dice che dobbiamo occuparci dell’uomo e io preferisco pregare così: il mio venerdì, lo trascorro con gli orfani. Il mio haji, il pellegrinaggio ai Luoghi Santi, è quello». E di questo Papa Francesco, che dice? Una Chiesa che torna alla povertà delle origini… «Non voglio avere parole cattive. Ma guardo i fatti: le cinque più grandi religioni del mondo si occupano dei poveri con organizzazioni, palazzi, fondazioni. Queste cose non servono ai poveri: servono a chi se ne occupa. L’unica religione è l’uomo. Nessuna religione può starvi sopra. La preghiera è nulla, se non ha al centro l’uomo».

Il lusso e la carità. L’uomo è un optional, nella bolgia Karachi. C’è acqua in una casa su tre. Niente fogne. E il 75 per cento dei rifiuti resta dove lo buttano, cioè dappertutto. Si paga il pizzo pure per l’elemosina e a incassare, venti ammazzati la settimana, sono le bande criminali che possiedono metà dei depositi bancari di tutto il Pakistan e rispondono ai grandi potenti di turno, che siano il nuovo premier Sharif o il clan dei Bhutto. «Un tempo minacciavano anche Edhi», racconta Asham Khan, 60 anni, il barista del Tower Café che tutte le mattine gli porta pane e marmellata e non vuole una rupia, anzi, a volte gliene lascia lui, «ma ora non osano più: è troppo amato dalla gente». Quello di Edhi è un semplice, garantito sistema di carità basato sul carisma e sui numeri sterminati delle masse asiatiche: chi gli versa un dollaro, ha cinque anni di tempo per presentarsi e riaverlo. Non torna mai nessuno a riscuotere: impiegati e mercanti, famiglie e sconosciuti, donare a Edhi fa sentire meglio e dà orgoglio sociale. «Ho girato ottantatré Paesi», dice lui, «non ho mai trovato gente come a Karachi. Vivono con poco, non chiedono aiuto a nessuno, mi hanno sostenuto in quel che sognavo». Ha incontrato re, dittatori, presidenti, milionari. Benazir Bhutto e Cory Aquinho, Suharto e Musharraf: «Nessuno mi ha mai fatto impressione, perché non è mai nato quello capace d’eliminare la povertà. Comprano armi, fabbricano l’atomica e poi parlano di solidarietà. Quando mi diedero il premio Balzan, anche il vostro governo italiano fece un’offerta. La rimandai indietro. Non ho bisogno di denaro che non so a chi è stato tolto. Ricevere un aiuto da fuori, o dall’alto, è soltanto la scusa dei pigri». Com’è spesso chi fa del bene, Edhi non perde tempo a lisciare il pelo dei ben intenzionati: «La rivoluzione sociale non c’entra nulla coi potenti. Loro ragionano a breve termine e per se stessi. I poveri invece devono aiutarsi reciprocamente, fidarsi solo dei poveri. Il povero è il più vicino alla verità, è così nudo che non può nasconderla. Perché dovrebbe dare ascolto a un’ideologia, a un partito, a una religione?».
A lezione di povertà, ogni tanto s’affaccia da Edhi qualche europeo sulla via dell’Oriente. Diplomatici e ong, mistici e giramondo in fuga dalla nostra grande depressione. «In Europa non c’è vera povertà. La sera avete la luce, l’acqua, case calde. Però c’è una grande sete di giustizia sociale, uguale all’Asia. I greci, gl’italiani vedono che senza giustizia sociale non si vive. Devono esigerla anche i governanti: se c’è giustizia, il sistema sopravvive. Altrimenti collassa. L’uomo viene prima della finanza, delle multinazionali, delle banche». Edhi accoglie tutti, ma qualche mercante nel tempio… Non gli piacciono i milionari che giocano alla filantropia, per esempio. O le damazze che si lavano la coscienza con qualche euro: «Un uomo che dà soldi, può farlo per molti motivi. I ricchi donano una parte minuscola di quel che hanno. Mostrarsi mentre si dona, è un buon modo per incassare vantaggi sociali. Ci sono organizzazioni umanitarie che pagano uffici, dipendenti, hotel. Ma non capisci un povero e i suoi bisogni più profondi se entri nella sua vita solo per pochi minuti. Il lusso e la carità non possono essere amici».
(Ci prende una mano, e pensiamo a una preoccupazione sincera: «Tu dove dormi stanotte?». Mah, in un albergo… «E quanto paghi?». Centocinquanta dollari. «Lo sai che con quei soldi», e il sorriso non è una carezza, «ci possono mangiare trecento persone?»).
Francesco Battistini