Paolo Baroni, La Stampa 24/5/2013, 24 maggio 2013
MA NON HA SENSO SPACCARE IN DUE LA CONFINDUSTRIA"
«Separare l’industria manifatturiera dai servizi? Non ha senso», spiega l’ad delle Ferrovie Mauro Moretti. «Capisco molte delle obiezioni di Guido Barilla, però guardiamo la classifica dei principali gruppi del Paese: nei primi 40 posti i manifatturieri sono appena 6, ExorFiat, Finmeccanica, Riva, Benetton, Pirelli e Luxottica. Con Fiat che non è più in Confindustria e Finmeccanica che è considerata di fatto pubblica. Per il resto sono tutte utilities, poco importa se a controllo pubblico o privato. Perché è chiaro che se si vuol mettere fuori da Confindustria l’Eni poi devono uscire anche Saras ed Erg. E se esce l’Enel deve andar fuori anche Edison, no?».
Secondo lei non c’è un conflitto di interessi tra aziende manifatturiere e società di servizi dentro Confindustria?
«Ma cosa si intende per manifattura? Un conto è produrre beni di consumo, biscotti, computer, biciclette o auto, tutte attività facilmente delocalizzabili, ed una cosa è produrre sistemi complessi che richiedono competenze di filiera difficili da trasferire da un’altra parte del mondo. Faccio un esempio: l’Eni vende gas e olio, ma non ha solo uffici e impiegati, ha tutta una catena industriale che parte addirittura dalla società di progettazione, la Saipem, che progetta sistemi di estrazione, stoccaggio, trasporto e distribuzione. Più industria di così non so cosa c’è? E lo stesso vale energia e ferrovie. Del resto l’industria moderna è nata con noi e ancora oggi più della metà della nostra forza lavoro sta in cantiere o in officina».
Andiamo più sul concreto: lei come gruppo Fs come si comporta?
«Se devo sviluppare l’Etr1000 non mi basta ordinarlo al costruttore, occorre che io prima identifichi il prodotto che voglio perchè sul mercato non esiste, o non c’è una concessionaria col mio prodotto, quindi devo possedere un knowhow quasi perfetto di tutto il sistema per poi sviluppare il prodotto con una dialettica quasi continua col mio fornitore. Ed in questo modo si forma quella conoscenza che serve a creare e a innovare ciclicamente il sistema della filiera industriale. A fine anni ’90 in Italia nel settore ferroviario non c’era quasi più niente, se si è ricreato un sistema industriale allargato di prim’ordine nel mondo, penso ad Ansaldo Sistemi, è perché c’eravamo noi come committente. È questo che devono fare paesi sviluppati come il nostro per mantenersi in vantaggio rispetto ai concorrenti nella sfida del mercato globale».
Barilla, come tanti imprenditori privati, forse “soffre” il peso eccessivo che in questi anni gli ex monopolisti di Stato hanno assunto in Confindustria.
«Se guardo alla contribuzione i nostri poteri non sono sovradimensionati».
Voi quanto pagate di contributi?
«Circa 3 milioni di euro l’anno. Mica è poco. E credo che i miei amici delle utilities paghino anche di più. E’ chiaro che non si può pretendere di aver un peso proporzionale alla loro dimensione, ma non capisco perché ci debba essere un sorta distacco tra due anime di una stessa economia. Per inciso, quanto ci riguarda voglio ricordare che noi ogni anno in Italia investiamo 4 miliardi dei quali circa la metà di autofinanziamento, chi fa altrettanto?».
Confederazione snaturata, dice Barilla.
«Non voglio interpretare Barilla. Però condivido con lui tutta una serie di osservazioni a cominciare dal fatto che la competizione si vince solo se si fanno cose di alta qualità al miglior prezzo possibile. E poi che per poter esprimere con maggior forza le nostre richieste occorre riorganizzare Confindustria. Un mondo assolutamente sovrabbondante, con tanti pezzi di burocrazia inutile. E così come dice il presidente Squinzi dobbiamo lavorare all’interno, operare una robusta semplificazione: anche perché, come imprese, non possiamo criticare le istituzioni che hanno troppi livelli e segmentazioni e noi mantenerne in abbondanza. Così come occorre semplificare il numero dei contratti, nell’alimentare come nei trasporti sono decine. Una follia. Intervenire su questi nodi significa risolvere il problema delle troppe corporazioni che convivono dentro Confindustria. Però il problema non si risolve con la ricetta di Barilla. Confindustria non può rinunciare alla grande impresa».
Cosa propone?
«Occorre predisporre condizioni favorevoli per creare, non dico dei campioni nazionali, perché non voglio utilizzare questo termine abusato, ma imprese di dimensioni tali da riuscire a competere nei settori più avanzati con le grandi imprese mondiali. Faccio l’esempio dei trasporti. Fiat ha dismesso la produzione di bus in Italia; ma ci credo, chi era il committente col quale si poteva confrontare ed avere garanzie per una base industriale stabile? Da noi non c’è nessuno. In Germania e Francia questo ruolo lo svolgono Deutsche Bahn e Sncf che ovviamente hanno un rapporto univoco con Mercedes e Renault».
Voi lo fate e gli altri big italiani fanno sistema?
«Credo di sì e comunque si deve andare in quella direzione con la guida delle politiche dello Stato».
Che fa, batte cassa?
«No, dico un’altra cosa. Noi siamo maestri nelle liberalizzazioni. Al di là delle polemiche di questi giorni, a me sta benissimo però chiedo allo Stato che in un mercato libero devo poter essere libero di scegliere i miei fornitori per costruire una catena duratura di innovazione e sviluppo, senza dover ricorrere alle procedure legate al pubblico, laddove non ricevo soldi pubblici, dimostrandolo con contabilità separate».